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Olga Gambari
Leggi i suoi articoliIl libro Perché non parli? Come raccontare il patrimonio culturale di Giovanni Carrada, pubblicato da Johan & Levi, parte davvero dalla dedica con cui si apre: «Alle persone che scelgono di entrare e visitare». La seconda partenza del libro è il suo ricordo di un museo londinese dedicato alla storia della chirurgia, tema non proprio appassionante e per il grande pubblico, dove, eppure, una mattina di agosto facevano la fila 30 persone, molte giovanissime.
In Italia, invece, dati Istat, sette italiani su 10 non visitano nulla, perché considerano arte e storia noiosi. «E quei tre su 10, quando visitano qualcosa, tornano a casa con una meraviglia generica ed effimera, senza che nulla di nuovo sia nato nella loro testa o nel loro cuore», scrive Carrada. Questo accade nel Paese che detiene il maggior numero di siti inclusi nella Lista del Patrimonio mondiale dell’Unesco.
Il saggio è una profonda riflessione su come patrimonio e pubblico debbano essere messi in dialogo, una responsabilità e un dovere che riguardano tutti i pubblici e il patrimonio storico e artistico (inteso dall’archeologia ai monumenti alle collezioni di arte contemporanea...). Il tema è l’accesso dei cittadini di ogni età e profilo a quello che è un enorme bene collettivo: l’arte e la cultura come diritto all’educazione, la formazione, il benessere. Non dare strumenti di comunicazione è togliere la parola e negare il rapporto, se non per una mera relazione visiva ed estetica. Invece (sotto, dentro, alle spalle, attorno) c’è una rete di significati che riguardano il passato, il presente e il futuro.
Il titolo evoca l’aneddoto di Michelangelo che, davanti alla sua scultura finita del Mosè, così viva da mancarle solo la parola, avrebbe pronunciato la famosa frase: «Perché non parli?». Ed è lo stesso sentimento che si prova di fronte alla maggior parte del patrimonio artistico: è vivo, pieno di storie ed emozioni, di idee, ma bisogna dargli parola. «Il capolavoro è muto», si intitola infatti un capitolo. E Carrada sa di che cosa parla.
Curatore di progetti di divulgazione scientifica e autore di programmi televisivi come quelli di Piero e Alberto Angela, da anni realizza anche mostre e interventi di valorizzazione del patrimonio storico, artistico, archeologico e industriale italiano. Nella prefazione del libro, James M. Bradburne (che in passato è stato direttore generale della Fondazione Palazzo Strozzi di Firenze e poi della Pinacoteca di Brera di Milano) identifica i punti di questo saggio che si pone come una sorta di manifesto ma anche di manuale dell’approccio al «museo» e della sua interpretazione. Nulla in un museo parla da sé; il museo non equivale alla sua collezione; gli esperti non sono necessariamente quelli che dovrebbero parlare; l’unico vero patrimonio di un museo sono gli oggetti reali; i musei non sono scuole; più che di curatori, abbiamo bisogno di «registi».
Le opere non parlano da sole ed è compito dell’istituzione non lasciarle mute, un vero pubblico servizio per non escludere le persone; ma ciò non significa trasformare l’idea di fruizione di un museo in intrattenimento. Interpretare non significa insegnare ma far capire e far godere allo steso tempo, perché non ci può essere comprensione senza emozioni, spiega l’autore. La cultura non deve essere un dovere ma un piacere. Questa esigenza è molto chiara a chi si occupa di arte pubblica, intendendo per «pubblica» non l’«arte in pubblico ma arte per il pubblico», come specificava l’artista Félix González-Torres. La figura dei mediatori di sala esiste soprattutto nell’ambito del contemporaneo, in quella visione che vede il museo un luogo di quotidianità e di comunità. Eppure, anche in questo caso, il rischio è di fare troppe parole, di usare un linguaggio elitario. Quindi c’è molto spazio e lavoro da fare. L’invito finale di Carrada è rivolto ai giovani: che facciano di questo vuoto e di questo diritto di relazione e incontro (sia del pubblico sia del patrimonio) una passione e una professione.
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