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Francesca Petretto
Leggi i suoi articoliÈ durato appena quattro anni il soggiorno berlinese di Ai Weiwei che ha comunicato alla stampa internazionale l’intenzione di trasferirsi a Cambridge, in Gran Bretagna, mantenendo tuttavia in attività l’atelier a Prenzlauer Berg.
Il trasloco nella cittadina universitaria inglese (con la compagna e il figlio di 11 anni al seguito) è la chiusura di una polemica invero a senso unico: in un’intervista di inizio agosto al quotidiano «Die Welt» Weiwei lamentava la chiusura mentale della società tedesca dovuta a un eccessivo arroccarsi nella propria secolare tradizione («La cultura tedesca è così forte che non accetta davvero altre idee e argomenti. Non c’è quasi spazio per dibattiti aperti né rispetto per le voci dissenzienti»), accusandola anche di razzismo sperimentato quotidianamente in prima persona.
L’artista 61enne, perseguitato dal regime di Pechino, ha raccontato di aver scelto nel 2015 la Germania come nuova residenza perché allora si era rivelato il Paese più disposto a battersi per la sua libertà. Oggi la situazione è mutata: Berlino non è più la stessa e l’ascesa del populismo la si vive, da stranieri, sulla propria pelle.
La critica si è poi allargata a tutta l’Europa e alla politica della Ue sui rifugiati: «Gli europei non dovrebbero più avere il privilegio della superiorità morale. Mi fa star male che si pretenda riconoscenza da chi disperato lotta e soffre per violenze, povertà e fame».
La reazione dei media tedeschi è stata di sorpresa; fra l’altro si sono chiesti se in un Paese davvero così chiuso (a detta di chi scappa da una vera dittatura) sarebbe stato possibile un analogo successo di pubblico o essere intervistati da media adoranti su ogni possibile argomento di attualità.

Ai Weiwei
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