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Martin Parr, «SPAIN. Benidorm» ,1997. ©Martin Parr

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Martin Parr, «SPAIN. Benidorm» ,1997. ©Martin Parr

Omaggio al fotografo appena scomparso. Parigi dedicherà a Martin Parr una delle più importanti retrospettive di sempre

Dal 30 gennaio al 24 maggio 2026, il Jeu de Paume di Parigi ospita la retrospettiva «Martin Parr. Global Warning», che ripercorre oltre cinquant’anni di fotografia del celebre documentarista britannico, rivelando il lato oscuro del quotidiano e del tempo libero. Le immagini, ironiche e incisive, mostrano consumo, turismo e tecnologia come specchi della società contemporanea

Sophie Seydoux

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A volte guardiamo tutto e non vediamo niente. Le cose hanno sempre almeno due lati, due verità che convivono senza toccarsi: lo sguardo rapido cattura il colore, la luce, il gesto; quello più lento intercetta la frattura, il dettaglio che incrina la superficie. Ed è in quella crepa minima che nascono le domande più profonde. Così, ciò che sembra semplice diventa urgente. È in questo doppio registro che entra «Global Warning», la grande retrospettiva che il Jeu de Paume di Parigi dedicherà a Martin Parr dal 30 gennaio al 24 maggio 2026. A prima vista tutto appare lieve, quasi un diario di viaggio popolato di souvenir, risate, luci, piccole scene quotidiane; basta un attimo e la patina si sfalda. I gadget da spiaggia usa e getta, i turisti compressi davanti alla Gioconda, i visitatori che sembrano divertirsi mentre raccontano tutt’altro: Parr non fotografa il tempo libero, fotografa un pianeta che fatica a respirare.

Negli ultimi cinquant’anni, Martin Parr, nato a Epsom, Surrey, nel 1952, si è guadagnato la reputazione di uno dei più importanti fotografi documentaristi britannici. Con oltre cento libri pubblicati e una carriera costellata di mostre internazionali, ha costruito uno sguardo unico sul mondo contemporaneo, capace di trasformare il quotidiano in specchio del nostro tempo. Nel 2017 la Martin Parr Foundation ha aperto a Bristol, la sua città adottiva, per custodire il suo archivio e offrire uno spazio dedicato alla celebrazione della fotografia britannica e irlandese. Le sue immagini, vivide e immediatamente riconoscibili, hanno sempre osservato la società con un umorismo pungente: turisti compressi nelle spiagge più affollate dell’Argentina, il primo drive-through McDonald’s a Dublino, il conservatorismo britannico dell’era Thatcher, le proteste Black Lives Matter, la Corea del Nord ossessivamente ordinata, o perfino il mondo competitivo del lemon curd fatto in casa. Parr stesso osservava che le sue fotografie «tendono a organizzare il caos, a definire cosa stiamo facendo qui», catturando con precisione ciò che spesso sfugge a un’occhiata superficiale.

Il percorso della mostra, attraverso 180 opere che attraversano oltre cinquant’anni, ricostruisce una sorta di geografia emotiva del mondo contemporaneo. Una mappa in cui ogni immagine sembra innocua finché non la si osserva abbastanza a lungo. Il tempo libero, luogo apparentemente puro, svela la sua faccia oscura: spiagge annerite dai rifiuti, piscine artificiali che imitano ciò che abbiamo perso, parchi acquatici dove le famiglie cercano un sollievo che dura il tempo di un biglietto. E nella sovrapposizione di sorrisi e materiali sintetici emerge un’idea disarmante: abbiamo trasformato il relax in una forma di consumo accelerato, un esercizio di distrazione che lascia sempre un’ombra.

Nel cuore dell’esposizione si apre poi la dimensione commerciale, quella più riconoscibile e al tempo stesso più insidiosa. I supermercati fotografati da Parr diventano microcosmi di una liturgia quotidiana: scaffali perfetti, luci al neon, file ordinate di prodotti che promettono felicità in offerta. Ma osservati con lentezza diventano scenografie quasi surreali, luoghi in cui la ricerca di senso passa attraverso imballaggi colorati e desideri fabbricati. È un teatro dell’abbondanza in cui il superfluo diventa rito, e il vuoto resta appeso tra una confezione e l’altra.
Il viaggio prosegue poi nel turismo, uno dei temi chiave del fotografo, qui più stratificato che mai. Non più solo ironia, ma uno sguardo che mette a nudo il meccanismo stesso del vedere. I visitatori diventano masse indistinte che attraversano città e paesaggi senza toccarli davvero, come se fossero fondali. Le navi da crociera trasformano i porti in gigantesche macchine di passaggio, mentre i luoghi sacri diventano tappe di un consumo istantaneo, utili più alla foto ricordo che all’esperienza. Parr coglie la tensione tra ciò che cerchiamo e ciò che perdiamo nel tentativo di possederlo.

Gli animali entrano in scena come un controcanto grottesco. Non più simboli della natura, ma «superfici» su cui proiettiamo il nostro bisogno di intrattenimento. Cani agghindati, elefanti ridotti a piattaforme di posa, creature vive trasformate in cornici per selfie: un catalogo di piccole distorsioni quotidiane che sembrano innocenti e invece raccontano un rapporto sempre più sbilanciato.
Poi la tecnologia, onnipresente come un mantra. Telefoni, tablet, schermi che catturano il mondo mentre ci allontanano da esso. Parr non demonizza i dispositivi: li mostra semplicemente per quello che sono diventati, oggetti di culto e barriere trasparenti. Attraverso le sue foto, appare chiaro quanto facilmente si possa credere di essere presenti quando in realtà si è altrove, inghiottiti da un display.
E in tutto questo, l’autore resta dentro la scena. Non osserva da lontano, non giudica. Mantiene quello sguardo ironico e sospeso che sembra sorridere mentre stringe la presa. «On va vers la catastrophe, mais on y va tous ensemble», diceva nel 2022. Una frase che suona come un promemoria, un invito ad assumersi la propria parte di responsabilità senza cadere nel moralismo. Una frase che attraversa la mostra come una linea sotterranea.

Martin Parr non costruisce un manifesto. Costruisce un avvertimento, o meglio: un avvertimento che si nasconde nella quotidianità. Lo si trova nelle code dei musei, nei tappetini delle piscine, tra le mani dei turisti che fotografano ciò che non vedono. Le sue immagini non sono comode, ma non sono neanche respingenti. Sono specchi. Sorridono, e nel sorriso scorre qualcosa di più cupo. E più vero.
In un anno segnato da ansia ambientale e burnout digitale, «Martin Parr. Global Warning» diventa quasi una diagnosi. Non offre risposte, ma mette davanti allo specchio un mondo che continua a sorridere mentre affonda. E la domanda finale resta sospesa, senza rumore: se il futuro somiglierà davvero a una lunga vacanza d’estate, ci accorgeremo del momento esatto in cui comincerà a svanire?

Sophie Seydoux, 10 dicembre 2025 | © Riproduzione riservata

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