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Studio di Hannah Fletcher. Fotografia di Jack Johnstone

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Studio di Hannah Fletcher. Fotografia di Jack Johnstone

Nuove immagini: l’impatto ecologico della fotografia | La fotografia: storia di uno spreco

Un viaggio alla scoperta delle tecniche del passato e delle alternative future concepite per limitare l’impatto ambientale dello sviluppo e della stampa analogica

Hannah Fletcher

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I package digitali del Giornale dell’Arte sono focus semestrali che presentano articoli di approfondimento commissionati per l’occasione ad autori internazionali. L’obiettivo è analizzare, discutere ed esplorare le tematiche più significative per la fotografia e la cultura visiva contemporanea attraverso voci autorevoli provenienti da diversi background.

La fotografia ha una storia piena di risvolti dannosi e problematici, soprattutto per quanto riguarda i processi di sviluppo e di stampa. Guardando all’origine del medium, le prime fotografie venivano realizzate attraverso il processo del dagherrotipo, il quale prevede l'esposizione di rame argentato allo iodio e il fissaggio con vapore di mercurio, elemento altamente tossico. I vapori potevano infiammare i polmoni, causare difficoltà respiratorie, dolore al petto e tosse. Tra gli effetti peggiori, c’era l’accumulo di liquidi nei polmoni, l’insufficienza respiratoria e, infine, la morte.

Successivamente, è arrivata la calotipia, processo di sviluppo in cui veniva utilizzata carta rivestita di ioduro d’argento, un composto originato dalla reazione del nitrato d’argento con lo ioduro di potassio. Il primo poteva causare mal di testa, vertigini, nausea e vomito, mentre il secondo disturbi di stomaco, eruzioni cutanee e infiammazione delle ghiandole salivari.

Nonostante ciò, i fotografi dell’epoca non furono scoraggiati dalla letalità dei vapori e delle soluzioni che si riversavano sulle loro macchine fotografiche, sulle scrivanie e sui loro corpi. Mentre erano impegnati a esplorare il potenziale rappresentativo dell’immagine fotografica, l’utilizzo di prodotti chimici ad alto rischio continuava a venire approfondito e sperimentato.

A metà del 1800, il collodio sostituì il processo calotipico e divenne il materiale standard utilizzato in fotografia. Soluzione viscosa ancora oggi adottata da pochi praticanti, il collodio è composto da etere, alcool e nitrocellulosa, agente chimico altamente infiammabile se messo a contatto con fiamme, calore, urti, impatti, attrito, scintille o elettricità statica. La nitrocellulosa è dannosa se ingerita, inalata o assorbita attraverso la pelle, può colpire il sistema nervoso centrale, causare irritazione alla pelle, agli occhi e alle vie respiratorie. Invece, respirare etere può causare sonnolenza, eccitazione, vertigini, vomito, respirazione irregolare e aumento della salivazione, mentre un’esposizione elevata può causare perdita di coscienza e morte.

Nel XIX secolo, secondo Bill Jay, autore di Death in the Darkroom: Poisonings of Nineteenth Century Photographers, «praticamente ogni settimana la stampa riportava un incidente o la morte di un fotografo avvenuta durante le sue manipolazioni chimiche». Molti fotografi dell’epoca, spinti da un’insaziabile desiderio di fermare per sempre la luce su una superficie, pagarono il prezzo dell’esposizione alla tossicità degli elementi chimici.

Ben presto, le emulsioni di gelatina ai sali d’argento presero il sopravvento. Permettendo una maggiore stabilità, l’utilizzo di questo materiale portò all'invenzione della pellicola prodotta in serie, introducendo la fotografia a un pubblico di massa. Tuttavia, uno dei primi sviluppatori utilizzati in questo procedimento, essendo composto da acido pirogallico, poteva essere letale per il solo contatto con la pelle. Per fortuna, l’ultimo utilizzo di questo sviluppatore risale intorno al 1920; da allora, i prodotti chimici e i materiali necessari per la fotografia alla gelatina d’argento sono meno nocivi per chi li utilizza, ma purtroppo lo stesso non si può dire dei danni che questi causano all’ambiente.

Oggi, per realizzare pellicole e carte fotografiche è necessaria gelatina di alta qualità creata da ossa di vacca, nota come gelatina di osseina di tipo B. La rapida ascesa del medium fotografico ha provocato una crescente domanda di questo materiale, generando una dipendenza che sarebbe stata impensabile senza i progressi di un’industria completamente diversa da quella fotografica, ma ad essa connessa: l’allevamento intensivo. Poiché la carne è diventata sempre più economica, i margini di profitto dell’industria sono stati tenuti a galla dal valore di questi «sottoprodotti», intrecciando i due settori e incrementando la loro dipendenza reciproca.

Come ha scritto Edd Carr, il co-direttore di The Sustainable Darkroom (il programma di ricerca incentrato sull’apprendimento reciproco di cui faccio parte, concepito per dotare gli operatori culturali di nuove competenze e conoscenze volte a sviluppare una pratica di camera oscura rispettosa dell’ambiente), «l’attenzione al profitto ha determinato le rivoluzioni tecnologiche che hanno portato alla presenza massiccia di gelatina nella pellicola; per alimentare ogni singolo scatto fotografico, i bovini vengono trattati come sottoprodotti e gli ecosistemi come discariche» [1]. L’animale viene oggettivato come elemento negli ingranaggi di una società capitalista.
 

La storia dell'argento

Ma la gelatina non è l’unico ingrediente delle stampe nostalgiche, sgranate ed esteticamente piacevoli racchiuse negli album di famiglia. Alla base della creazione delle stampe fotografiche ci sono anche argento e resina di polietilene. La storia dell’argento (uno dei metalli più preziosi al mondo, la cui scarsità è un problema molto grave) è profondamente intrecciata con le potenze coloniali europee, che sfruttando le popolazioni locali hanno costruito intere miniere dedicate alla sua estrazione, spesso appropriandosi della terra delle popolazioni indigene e inquinando fiumi e laghi. Ancora oggi, se ne scavano di nuove in aree remote o in Paesi in via di sviluppo, con scarsa consultazione delle comunità che vi risiedono. Le vie d’acqua e i terreni vengono contaminati molto facilmente durante l’estrazione, rendendo intere aree inabitabili sia per gli esseri umani che per la fauna locale.

Inoltre, pochissimo argento proviene da fonti riciclate: nel 2022 sono stati riciclati 173 milioni di once di argento rispetto ai 917 milioni di once estratti dalle miniere di tutto il mondo. Si tratta di appena il 15%. In confronto, il 60% del rame estratto proviene da fonti riciclate, mentre la percentuale di acciaio corrisponde al 50%. Per quanto riguarda la resina di polietilene, è lo stesso materiale con cui sono fatti i sacchetti per la spesa, i tubi di scarico e le forniture mediche. Non si biodegrada e, decomponendosi lentamente, forma microplastiche nelle discariche, che si stanno lentamente facendo strada nella nostra acqua, nel nostro cibo e nei nostri corpi.

Considerando queste premesse, è chiaro come la fotografia riassuma perfettamente l’idea di «Wasteocene» di Marco Armiero, il quale sostiene che la nostra attuale epoca geologica è fondata sullo spreco di esseri umani e non umani: siamo tutti visti come indispensabili per il sistema capitalista. Il consumo a cui prendiamo parte (in questo caso, quello di supporti fotografici) non è solo di oggetti materiali «ma di corpi e di persone che, per realizzare le cose che compriamo, estraendo minerali e metalli e lavorando in ambienti tossici, rischiano la vita. Queste persone vengono sepolte all’età di 50 anni: il cimitero diventa un muto narratore della storia del Wasteocene» [2].

Non sto raccontando tutto questo per spaventarvi e allontanarvi dalla fotografia, ma per emanciparvi con consapevolezza, chiarendo i lasciti, sociali e ambientali dell’immagine fotografica. Una volta accertate le conseguenze, possiamo iniziare a procedere verso un futuro dove la fotografia sia meno distruttiva, un futuro influenzato dalla «narrativa che collega spreco, giustizia e costruzione del nostro mondo attuale». Possiamo iniziare a ridefinire i principi del medium e lavorare per una riforma radicale.

Sono felice di informarvi che la strada verso questo orizzonte, fatto di materiali degradabili, argento riciclato, sostanze chimiche e gelatine a base vegetale, è già in parte spianata. Dal 2019, sono infatti alla guida di The Sustainable Darkroom. Ad oggi abbiamo collaborato e supportato persone in 29 paesi. Questa «strada» verso la sostenibilità non ha ancora applicazioni pratiche: non disponiamo di carte ecologiche e prodotti chimici pronti per l’uso, ma quello che facciamo è incoraggiare azioni comunitarie e momenti di ricerca collettiva.

Confrontandoci tra di noi, abbiamo imparato che uno dei cambiamenti più semplici che possiamo apportare è relativo all’acqua di scarto. Infatti, tutti i processi di sviluppo implicano una fase di lavaggio. Come molti di noi, quando sono stata introdotta alla camera oscura, mi è stato insegnato di lavare la mia pellicola in bianco e nero per 20 minuti dopo il fissaggio. Mi è stato detto che avrei dovuto lasciarla sotto un flusso d’acqua corrente a temperatura controllata, a media pressione. Se, di fronte ai puristi della camera oscura, sottolineassimo quanto questo sia uno spreco ridicolo di acqua, riceveremmo sicuramente un’occhiataccia, come a dire «questa è una conoscenza sacra tramandata da antichi antenati fotografi e maghi della camera oscura!».

È stato solo dopo essermi allontanata dalla cerchia dei puristi e avere iniziato a lavorare in camere oscure «casalinghe» e in spazi più informali che questi dubbi, sepolti in fondo alla mia mente, hanno cominciato a bruciare più luminosi che mai. Ho cominciato a rendermi conto di come questi «maghi ancestrali» della conoscenza fotografica lavorassero in realtà in un’epoca in cui c’era poca comprensione del complesso equilibrio ambientale in cui viviamo… Ormai era necessario da tempo che nuove abilità ed esperienze si facessero strada nelle camere oscure, si appostassero sotto le luci rosse e aleggiassero sopra i vassoi macchiati di sostanze chimiche.

Come risparmiare energia

Solo cambiando il modo di lavare i supporti, in media, una persona potrebbe risparmiare oltre 58 litri d’acqua per ogni pellicola da 35 mm. Nel pratico, ecco alcune raccomandazioni: quando lavate la pellicola o la stampa copritela con un velo d’acqua (non è necessario riempire il serbatoio o il vassoio fino all’orlo). Agitate per 5 minuti e poi versate l’acqua in un contenitore. Ripetete i passaggi altre due volte per rendere il materiale stabile e tre volte per renderlo adatto all’archiviazione. Inoltre, al fine di risparmiare acqua, pensate all’uso che farete della stampa: è una stampa d'archivio o avete semplicemente bisogno che non si rovini nel tempo?

Come ormai avrete capito, la storia della fotografia è costellata di morte, inquinamento, rischio e contaminazione. Per molti versi, è una storia fatta di spreco: spreco di prodotti chimici, spreco ambientale, spreco di vite e di relazioni. Sotto questo spreco si cela ovviamente anche una storia ricca di innovazione e cambiamento. La fotografia, infatti, è un mezzo che si è continuamente trasformato: dalla camera oscura all’ascesa del digitale, fino a programmi come Photoshop e hardware che estendono i limiti in nuove direzioni: l’arte fotografica non ha mai smesso di andare avanti.

Ma in mezzo all’entusiasmo per gli schermi LCD e l’aumento dei mega-pixel, ciò che resta nell’ombra è il processo che precede la prossima invenzione, il prossimo grande salto nell'innovazione. È qui che troviamo la fotografia analogica, ancora molto apprezzata e utilizzata da fotografi, artisti e frequentatori di festival; eppure per troppo tempo lasciata dietro le quinte, mentre la fotografia digitale si conquistava il centro della scena. Alla fine degli anni 2000 sembrava che la scomparsa della fotografia analogica fosse dietro l’angolo. Tuttavia, a distanza di dieci anni, è chiaro che questa è tutt’altro che prossima alla morte. Con oltre 40 laboratori di sviluppo indipendenti all’attivo nel Regno Unito, molti dei quali hanno aperto negli ultimi tre anni, è chiaro che questo mezzo durerà ancora per un po’.

Detto ciò, questo è un momento cruciale per la fotografia analogica per progredire e rendersi rilevante per la società contemporanea, la quale sta affrontando un vero e proprio collasso ecologico. Si trova davanti un’opportunità per mettere in discussione i «custodi» del regno della camera oscura e allontanarsi dal suo legame di lunga data con i prodotti chimici tossici, l’allevamento animale industrializzato, lo sfruttamento, la plastica monouso, l’inutile spreco di acqua, l’inquinamento e l’estrazione mineraria svolta in modo non responsabile.

Insieme, possiamo rivoluzionare i processi, i materiali, i sistemi e la cultura fotografica, trasformandola in un dispositivo di cura ambientale e consapevolezza ecologica. Viviamo in un momento di grande incertezza sul futuro del nostro pianeta. Se vogliamo che la fotografia analogica prosperi, dobbiamo allontanarla radicalmente dalle eredità tossiche del suo passato.


Hannah Fletcher è un’artista che lavora con processi fotografici «cameraless», ovvero senza macchina fotografica, fondatrice di The Sustainable Darkroom, co-direttrice del London Alternative Photography Collective e facilitatrice della sostenibilità nelle arti. La sua ricerca è focalizzata sulle numerose e complesse relazioni tra materiali fotografici e non, intrecciando materia organica (come terra, alghe, funghi e radici) con supporti e superfici fotografiche. Fletcher si interroga sul ciclo di vita e sul valore dei materiali incorporando nel processo di produzione i rifiuti che produce nel suo studio e nei suoi workshop. Nel 2019 ha dato vita a The Sustainable Darkroom, un programma di ricerca, formazione e apprendimento gestito da artisti, pensato per dotare gli operatori culturali di nuove competenze e conoscenze utili a sviluppare una pratica fotografica analogica più rispettosa dell’ambiente.


[1] Carr, E. (2019) The Ecology of Grain: An Ecological Analysis of Gelatin in Photographic Film. MA Contemporary Art Practice. Royal College of Art.
[2] Armiero, M. (2021) Wasteocene. Cambridge: Cambridge University Press.

Studio di Hannah Fletcher. Fotografia di Jack Johnstone

Hannah Fletcher durante residenza di The Sustainable Darkroom nel 2019

Hannah Fletcher, 08 luglio 2023 | © Riproduzione riservata

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