Soldati americani sfondano una porta nel gioco «Medal of Honour» (2010)

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Soldati americani sfondano una porta nel gioco «Medal of Honour» (2010)

Nuove immagini: intersezioni tra fotografia e videogame | La guerra reale (non) è un gioco

Fotogiornalismo e videogame a tema bellico: che cosa hanno in comune?

I package digitali del Giornale dell’Arte sono focus semestrali che presentano articoli di approfondimento commissionati per l’occasione ad autori internazionali. L’obiettivo è analizzare, discutere ed esplorare le tematiche più significative per la fotografia e la cultura visiva contemporanea attraverso voci autorevoli provenienti da diversi background.

Mentre vi inoltrate nel sottobosco, inseguendo lentamente la vostra preda, siete esterefatti dall’ambiente dettagliato in cui vi trovate, una rappresentazione fotorealistica della campagna francese della Normandia nel 1944. Portate all’occhio il fucile da cecchino, zoomando il mirino telescopico per mirare alla testa di un nemico. Trattenendo il respiro virtuale, premete lentamente il grilletto del controller, rilasciando così un proiettile che vola, al rallentatore, fino alla cavità oculare del soldato tedesco, facendolo esplodere in uno spruzzo grafico di sangue e cervella.

In un altro mondo, vi muovete tra i rottami arenati di un convoglio di camion e veicoli corazzati, combattendo con la vostra squadra di compagni color sabbia, utilizzando una serie di dettagliatissimi rendering di moderne armi da fuoco per eliminare, in lontananza, i nemici con la kaffiyeh. In un altro mondo ancora, maneggiando un joystick guidate un missile verso il bersaglio, aiutati da un sistema di immagini termiche che rende la scena di un colore verdastro.

L’eccitazione viscerale di questi momenti si colloca all’interno di un repertorio collettivo di raffigurazioni della guerra nei media contemporanei, spaziando dai videogiochi, al cinema e ai servizi giornalistici. Nel loro insieme, queste varie forme di media visivi creano un apparato comune di forme con cui la società elabora l’esperienza vissuta della guerra in un linguaggio accettabile per il pubblico.

Secondo il teorico del gioco Matthew Thomas Payne «fotografie, film, programmi radiofonici, fumetti, siti web e, sì, videogiochi, costituiscono le prove scientifiche e gli elementi culturali della nostra memoria nazionale collettiva» [1], mentre lo studioso di strategia militare Richard Godfrey sostiene che «non concepiamo i videogiochi come semplici forme di gioco, ma come importanti artefatti culturali attraverso i quali la guerra, la violenza e il militarismo vengono commercializzati e consumati» [2]. E i giochi a tema bellico sono certamente molto diffusi: la serie «sparatutto in prima persona» (traduzione per «First-person shooter», da cui l’acronomico FPS) «Call of Duty», lanciata per la prima volta nel 2003, ha venduto finora oltre 420 milioni di copie, diventando il quarto franchise di giochi di maggior successo dopo «Super Mario», «Tetris» e «Pokémon».

Ian Kikuchi, curatore di «War Games», una mostra sui rapporti tra conflitti e videogiochi attualmente in corso presso l’Imperial War Museum (fino al 28 maggio 2023), concorda sul fatto che il regno visivo è il punto di riferimento chiave per la nostra comprensione dell’esperienza della guerra, osservando che «la fotografia di conflitto, realizzata da parte di cameraman ufficiali o fotoreporter, risulta incredibilmente influente almeno per quanto riguarda il conflitto nell’era della fotografia. La fotografia era la prima fonte di documentazione a riguardo».

E continua spiegando che «se parlate con gli sviluppatori di un videogame, vi racconteranno delle centinaia di ore di girato e delle migliaia di fotografie che hanno ricevuto dai soldati sul fronte, che hanno senza dubbio influenzato il design del gioco. I media visivi sono sempre il nostro primo punto di riferimento» [3]. Sostiene inoltre che entrambi i linguaggi condividono l’imperativo di rappresentare la natura viscerale del conflitto, identificando un «affascinante impulso condiviso tra la fotografia e lo sviluppo di videogame, ovvero il desiderio costante di avvicinarsi al fronte, di andare più avanti, di arrivare al fronte del fronte. I fotoreporter vogliono sempre essere dove c’è l’azione e dove si trova il pericolo maggiore».

Questo legame ombelicale nella rappresentazione del conflitto tra fotografia, film e game design è meglio caratterizzato dalla catena di rappresentazioni che collega le fotografie estremamente sfocate dello sbarco del D Day realizzate da Robert Capa, alle stesse scene riprodotte nel film di Steven Spielberg del 1993 «Salvate il soldato Ryan», fino alla simulazione del 2005 dell’attacco dei Rangers statunitensi alla spiaggia dello Utah in «Call of Duty 2».

Payne espande questi collegamenti transmediali per definire un linguaggio visivo e condiviso della raffigurazione del combattimento, notando che «rimane un fatto notevole che i tratti a lungo associati al cinema di guerra (vale a dire immagini spettacolari e cinestetiche e narrazioni avvincenti di eroismo personale) siano migrati nelle pratiche quotidiane dei programmi di notizie via cavo e nella progettazione di giochi di guerra». Ad esempio, confronta una fotografia delle truppe statunitensi in Iraq che sfondano una porta «nel mondo reale» con una scena quasi identica in «Medal of Honour», notando che «i media di guerra utilizzano lo stesso lessico visivo».
 

Una apparente fedeltà

Questa apparente fedeltà tra la rappresentazione documentaria del conflitto e la sua resa all’interno del mondo dei videogame dà vita a un potente strumento per la vendita e la promozione dei giochi incentrati sul combattimento, a tal punto che «gli sparatutto militari post 11 settembre sono stati e rimangono un successo di mercato perché le loro immagini fotorealistiche e le loro storie coinvolgenti sono in armonia con l’aspetto e le sensazioni che produttori e giocatori credono debba avere un combattimento».

In questa sinergia crossmediale, tuttavia, si nasconde un pericolo, come osserva Godfrey: «Mentre assistiamo a rappresentazioni sempre più realistiche della guerra come forma di gioco e attività ricreativa, queste simulazioni si confondono con la rappresentazione della guerra reale resa sui nostri schermi attraverso i notiziari televisivi, cosicché la guerra virtuale viene presentata e vissuta in modo simile al modo in cui viene raccontata la guerra reale e, allo stesso tempo, la guerra reale viene sempre più rappresentata come un gioco».

In definitiva, questa confluenza di rappresentazioni mediatiche del conflitto tende a quello che si definisce «infotainment» e, come sostengono Brad Evans, professore di violenza politica, e Henry Giroux, esperto di media studies, a sensazionalizzare e a mercificare la violenza, normalizzandola al tempo stesso [4]. Così facendo «svuota tali eventi di ogni valida sostanza etica e politica», inducendo i consumatori a «sacrificare avidamente ogni senso di responsabilità etica per provare sensazioni di piacere da immagini di sofferenza umana».

Nel contesto dei giochi di combattimento, questo piacere deriva spesso dall’impatto drammatico delle armi sul corpo umano: i colpi alla testa, in particolare, premiano il giocatore con immagini brutali di sangue e cervelli che esplodono.

Il fatto che l’inflizione di effetti così raccapriccianti sia considerata accettabile all'interno dell’universo videoludico dipende dall’accettazione dei principi di quest’ultimo. Kikuchi sostiene che i videogiochi creano un proprio insieme interno di regole e logiche che definiscono l’etica di ciò che è o non è accettabile all’interno di quel mondo di gioco, tanto che «molti giochi costruiscono un universo morale che sarà per la maggior parte narrativamente delineato e definisce quale tipo di violenza è accettabile e quale no. Spetta al singolo sviluppatore e al suo editore stabilire dove viene tracciata la linea di demarcazione e quali comportamenti non sono consentiti, quali possono essere messi in atto e puniti e quali devono essere incoraggiati. Per esempio, sparare al nemico è lo scopo del gioco, ma sparare accidentalmente ai civili non lo è».

Per lui, di solito c’è un limite che determina il modo in cui viene presentata la violenza nei mondi virtuali, che considera «la natura dei giochi come intrattenimento. Credo che ci sia una linea di demarcazione, che le persone percepiscono in modo diverso, oltre la quale il realismo cessa e si spezza l’idea che si tratti di intrattenimento». Tuttavia, questa linea può essere portata all’estremo a seconda del contesto in cui il gioco è ambientato. Per esempio, nel recente «Sniper Elite 5», ambientato nelle ultime fasi della Seconda Guerra Mondiale, l’impatto dei proiettili dell’arma del giocatore viene riprodotto con dettagli grafici elaborati, mentre il proiettile si fa strada tra crani, cervelli e intestini, con un livello di gore dettagliato in stile raggi X.

Tuttavia, dato l’obiettivo del gioco di sconfiggere l’occupazione nazista dell’Europa, questa brutalità estrema è considerata accettabile: «“Sniper Elite” punta molto su rappresentazioni visivamente anatomiche della violenza, ma in qualche modo questo non viene considerato nella nostra valutazione degli effetti: se incontrassimo qualcuno con la testa staccata per strada rimarremmo traumatizzati da quell’esperienza per il resto della nostra vita, o anche se lo vedessimo in una pubblicazione. Tuttavia, è diverso se tutto questo viene inquadrato nel contesto di un gioco d’avventura della Seconda Guerra Mondiale, in cui far saltare la testa a un nazista o far esplodere l’unico testicolo superstite di Hitler diventa un valore morale positivo. Non c’è nulla di male a fare una cosa del genere a un Hitler virtuale».

La fotografia giornalistica, il cinema e i videogiochi, condividono il fascino dei tropi visivi del conflitto, che si tratti di sagome di aerei da combattimento al tramonto, di inquadrature di fucili d’assalto caricati con mirini telescopici e torce elettriche puntate su un bersaglio, di immagini verdastre e spettrali riprese attraverso occhiali per la visione notturna o della distanza, ancora più remota, dello sguardo del drone verso il terreno sottostante, visto attraverso il sistema di imaging di un UAV (veicolo aereo senza equipaggio) che si aggira sopra il suo obiettivo. Tutte queste rappresentazioni possono essere considerate come forme di ciò che il sociologo Robin Luckham definisce «cultura dell’armamento» o «feticismo del sistema d’arma avanzato» [5].
 

Al Fallujah, Iraq, 13 novembre 2004. Foto di Spc. Brandi Marshall, copyright U.S. Army

«Spec Ops: The Line» (2012)

Weaponization

Questa attenzione alla «weaponization» (armamento) del conflitto è spesso allineata con una visione del mondo dei media dominanti che sostiene l’applicazione della violenza come strategia accettabile per intervenire in situazioni di conflitto globale. Payne riconosce che questa attenzione al fascino visivo dei dispositivi bellici può potenzialmente creare un impatto negativo sullo spettatore o sul giocatore, notando che «gli sparatutto militari sono tipicamente realizzati in modo da esaltare attributi tecnologici o estetici considerati accettabili, evitando di affrontare questioni che potrebbero stimolare una riflessione critica sulla loro incapacità di riprodurre la realtà sociale che accompagna i conflitti mondiali».

Godfrey concorda, ampliando questo punto per rivelare come i videogame possano sostenere le prospettive politiche dominanti, escludendo le possibilità alternative, sostenendo che «i giochi FPS a tema militare adottano quasi universalmente una prospettiva politica e ideologica anglo-occidentale e, attraverso i loro temi narrativi e le loro immagini visive, lavorano anche per legittimare e naturalizzare l’uso della violenza come soluzione alle crisi internazionali, siano esse politiche, culturali o persino naturali».

Probabilmente questo vale anche per la maggior parte degli spettacoli cinematografici e per gran parte del giornalismo visivo mainstream. Evans e Giroux sostengono che «la brutalità diventa sempre più comune nell’intrattenimento, la violenza sconosciuta, come le immagini estreme di tortura e morte (che siano di finzione o reali) diventa banalmente familiare, mentre la violenza familiare che si verifica quotidianamente è a malapena rappresentata, e relegata nel regno dell’inosservato e del non percepibile». La morte è ridotta a un risultato necessario in nome del progresso nel mondo del gioco, o nella narrazione di una «guerra giusta» sulla prima pagina di un giornale.

In definitiva, Kikuchi ritiene che «la differenza estetica tra ciò che è ammissibile nei media e nei giochi è innanzitutto ciò che viene definito come intrattenimento, e poi la natura partecipativa che priva la morte del suo peso. La morte in un videogioco è una sciocchezza». Riconosce tuttavia che «i giochi hanno fatto cose piuttosto interessanti con la morte. Se la violenza è la caratteristica fondamentale della guerra, allora la morte è la vera sfida che i videogame devono affrontare: la morte può essere significativa o può essere solo carne da macello».

Ci sono alcuni videogame, tuttavia, in cui la questione della rilevanza della morte nel mondo del gioco viene affrontata in modo opposto a quanto avviene nei titoli tradizionali. Nei giochi che adottano un approccio che il ricercatore Holger Pötzsch ha definito «critical play and radical game design» [6], gli sviluppatori hanno tentato di «mettere in discussione e sfidare posizioni egemoniche e cornici performative e percettive». In questo modo, sperimentano le convenzioni dell’esperienza di gioco con «l’obiettivo di promuovere consapevolmente modi alternativi di vedere, pensare e agire».

Forse l’esempio più riuscito e stimolante di questo approccio è rappresentato dagli esiti narrativi del gioco «Spec Ops: The Line» del 2012, in cui il giocatore viene inizialmente coinvolto in un’ambientazione di guerra moderna relativamente convenzionale, in cui le truppe statunitensi combattono per liberare i civili dalle forze paramilitari in una città futura in rovina, Dubai, le cui scene iniziali si basano su alcune fotografie della Guerra del Golfo (1991), raffiguranti la distruzione della colonna di veicoli iracheni sulla cosiddetta «Autostrada della Morte», la superstrada che porta da Kuwait City verso Bassora, in Iraq.

Tuttavia, man mano che il gioco procede, il giocatore è costretto a una serie di situazioni compromettenti che culminano nella decisione di lanciare missili al fosforo bianco su una presunta postazione nemica, dalla prospettiva di un operatore di droni che utilizza lo schermo di un computer all’interno dell’ambiente di gioco. Dopo l’attacco, la vista si sposta a livello del terreno, dove il giocatore si trova ad affrontare le conseguenze dell’attacco, rendendosi conto che, oltre ai soldati nemici bruciati vivi dalla tempesta di fuoco, anche un folto gruppo di civili è stato vittima della devastazione.

Il livello di gioco si conclude con l’orribile immagine di una madre e di un bambino la cui pelle è stata carbonizzata, rivelando il cranio sottostante: una delle immagini più raccapriccianti e toccanti di tutta l’esperienza videoludica, che riecheggia in qualche modo la famigerata fotografia di Kenneth Jarecke del volto carbonizzato di un soldato iracheno nell’Autostrada della morte, a sua volta pesantemente censurata all’epoca.

Come nota Payne, questo momento ha un effetto profondamente sconcertante sul giocatore, che si rende conto delle gravi conseguenze delle sue azioni: «Questa brusca transizione dalla navigazione dell’interfaccia videoludica alla vista della strage provocata, con tanto di fuoco e fiamme, riflette la manovra critica del gioco che opera uno scarto: dalla modalità testuale del comando dei droni si passa alla realtà dei suoi effetti violenti». Il giocatore si trova quindi a dover scegliere se continuare o meno il gioco. Se prosegue, il resto della narrazione vede il personaggio come vittima di una grave forma di PTSD a conseguenza delle sue azioni.
 

Un design consapevole

Pötzsch spiega ulteriormente che «Spec Ops» inverte la tipica ossessione della «cultura degli armamenti», sostenendo che «ricalibrando i criteri generici, una progettazione critica dei giochi può andare oltre le questioni mimetiche di accuratezza dei movimenti, delle traiettorie dei proiettili e delle rappresentazioni dei tipi di armi, gradi o abbigliamento, e dirigere invece l’attenzione verso le intricate logiche e le complessità morali dei conflitti, così come le conseguenze spesso involontarie e controproducenti della violenza».

Così come «Spec Ops» sfida la visione convenzionale del mondo geopolitico della maggior parte dei giochi incentrati sul combattimento, applicando questo concetto di «design consapevole» al mondo del fotogiornalismo, ci sono diversi progetti fotografici che muovono una critica simile alle rappresentazioni tradizionali della violenza.

Il primo di questi è War Porn, libro del 2014 del fotoreporter tedesco Christoph Bangert. Questo piccolo volume contiene immagini estremamente grafiche degli effetti della violenza, soprattutto sui civili, di cui è stato testimone Bangert durante i conflitti iracheni e afghani, immagini che all’epoca non sono mai state pubblicate. Come spiega il fotografo, tali immagini diventano di fatto invisibili nei media tradizionali, dal momento che il processo di autocensura si svolge in tre fasi: «Prima viene fatto dal fotografo stesso, ci sono molte immagini che non vengono nemmeno inviate alla redazione. In seconda battuta, gli editori decidono cosa vogliono o non vogliono mostrare. Infine, la terza fase, che in realtà è la più interessante, è quella che attraversiamo tutti. Come osservatori, spesso non vogliamo vedere alcune immagini, le evitiamo. Non riusciamo a superare le nostre inclinazioni» [7].

Per affrontare questo problema, il libro di Bangert è stampato in modo tale che lo spettatore è costretto a strappare attivamente le pagine l’una dall’altra per vedere le fotografie. Per Bangert il libro è quindi «non solo una critica dei media e del sé, ma anche una critica di tutti noi come osservatori. Abbiamo tutti la responsabilità di cercare attivamente queste immagini e di guardarle, anche se è molto difficile».

War Porn e «Spec Ops» ci riposizionano quindi in una narrativa in contrasto con la tesi condivisa secondo cui la violenza è un risultato necessario e accettabile delle manovre geopolitiche, sfidandoci a rivalutare la glamourisation e la spettacolarizzazione della guerra. Se ci chiedessimo perché gli effetti orribili che i dispositivi militari hanno sul corpo umano siano stati minimizzati dai media tradizionali, forse metteremmo in discussione l’idea che la violenza autorizzata dallo Stato sia uno strumento valido per risolvere i conflitti globali.

Paul Lowe è professore di fotografia documentaria presso il London College of Communication, University of the Arts, Londra, Regno Unito. Inoltre, Lowe è un fotografo, educatore e ricercatore pluripremiato, il cui lavoro è rappresentato da VII Photos ed è stato pubblicato, tra gli altri, da «Time», «Newsweek», «Life», «The Sunday Times Magazine», «The Observer» e «The Independent». Ha documentato alcuni degli avvenimenti più importanti degli ultimi quarant’anni, tra cui la caduta del Muro di Berlino, la liberazione di Nelson Mandela, il conflitto nell'ex Jugoslavia e la distruzione di Grozny. Il suo interesse di ricerca si concentra sulla fotografia dei conflitti. Ha contribuito ai libri Picturing Atrocity: Photography in Crisis (Reaktion, 2012) e Photography and Conflict. I suoi libri più recenti includono Photography Masterclass, pubblicato da Thames and Hudson, e Understanding Photojournalism, coautore con la dottoressa Jenny Good, pubblicato da Bloomsbury Academic Press, Reporting the Siege of Sarajevo, coautore con Kenneth Morrison, sempre per Bloomsbury, e Photography and Bearing Witness in the Balkan Wars, pubblicato da Routledge.

Note: 
[1] M. T. Payne, Playing War: Military Video Games After 9/11, New York University Press, 2016.
[2] R. Godfrey, «The politics of consuming war: video games, the military-entertainment complex and the spectacle of violence», in «Journal of Marketing Management», 2022, pp. 661-682.
[3] Intervista dell’autore con Ian Kikuchi, curatore dell’Imperial War Museum, ottobre 2022.
[4] B. Evans e H. Giroux, Disposable futures: The seduction of violence in the age of spectacle, City Lights Books, 2015.
[5] R. Luckham, «Armament Culture», in Alternatives, Volume 10 numero 1, 1984, pp. 1-44.
6] H. Pötzsch «Selective Realism: Filtering Experiences of War and Violence in First- and Third-Person Shooters», in «Games and Culture», Volume 12 numero 2, 2017, pp. 156-178.
[7] M. Griebeler, «The naked brutality of war: interview with war photographer Christoph Bangert» su Qantara, 2014.
 

Paul Lowe, 04 novembre 2022 | © Riproduzione riservata

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