Image

Verifica le date inserite: la data di inizio deve precedere quella di fine

Louise Nevelson, «Senza titolo», 1964 ca

Foto: © Alessandro Zambianchi. Courtesy Gió Marconi, Milano

Image

Louise Nevelson, «Senza titolo», 1964 ca

Foto: © Alessandro Zambianchi. Courtesy Gió Marconi, Milano

Nevelson: «Nel mio lavoro c’è tutta la mia vita femminile»

L’Associazione Genesi presenta a Palazzo Fava una rassegna monografica della scultrice ucraina naturalizzata statunitense, composta da cicli scultorei dagli anni Cinquanta agli Ottanta

«Con il suo lavoro composto da scarti della quotidianità via via assemblati, Louise Nevelson (Leah Berliawsky diviene Nevelson sposando, a 17 anni, Charles, da cui divorzia nel 1941 e che ne sostiene la carriera artistica, Ndr), nata a Kiev nel 1899 e scomparsa a New York nel 1988, ha anticipato tematiche che ai suoi tempi non erano proprie del discorso pubblico, argomenti come il riciclo, l’importanza della memoria, il ruolo della donna. Anche la sua vita personale tocca argomenti che negli anni Cinquanta-Sessanta non erano ancora di dominio comune: si è opposta, appunto, alle convenzioni e al ruolo della donna ben prima del femminismo degli anni Settanta; inoltre divorziò e, spostandosi dall’Europa Orientale agli Stati Uniti, mostrò che una artista poteva farsi valere in un mondo di artisti e critici uomini. Si sommi tutto ciò al fatto che è nata a Kiev in Ucraina e si comprende perché riteniamo sia una artista oggi molto attuale»: Ilaria Bernardi, la curatrice, introduce così la protagonista della rassegna monografica, composta da cicli scultorei dagli anni Cinquanta agli Ottanta, allestita a Bologna, a Palazzo Fava, dal 30 maggio al 20 luglio, appuntamento che segue quello di Ai Weiwei nella sede ex Genus Bononie oggi gestita da Opera Laboratori di Firenze.

«Rispetto alla mostra di Louise Nevelson tenuta nel 2022 a Venezia (mentre due anni fa a Bologna espose alla galleria Spazia, Ndr) che era un sunto del suo lavoro, quella di Bologna dà una lettura critica alla sua opera, legata al processo alchemico, come lo chiama lei nella sua biografia del 1973, ossia la trasformazione dei materiali di poco conto in opere d’arte da leggersi secondo le tematiche cui le accennavo, prosegue la curatrice. Questa mostra è parte del programma 2025 della associazione Genesi, nata nel 2020 per volontà di Letizia Moratti: dopo avere esposto tra 2021 e 2024 la propria collezione in differenti sedi espositive, quest’anno propone mostre su artisti ormai storicizzati, oltre a Nevelson avremo “La vista non è ancora sguardo” a Ulassai in Sardegna, Fabio Mauri alla Triennale di Milano, “Irene Dionisio. Davvero verranno i giorni” ai giardini dei Giusti italiani. Tutti appuntamenti che si occupano di ambiente, condizione femminile, diritti umani, trattati appunto in tempi non sospetti: Nevelson, con la sua opera e la sua vicenda personale e le sue stesse coordinate geografiche, è tra queste con il suo femminismo ante litteram». 

Il punto focale è il materiale delle sue sculture ambientali e a parete, il legno di scarto legato al padre che operava nell’edilizia e al nonno che in Ucraina gestiva una fabbrica: «Il parallelismo è con le donne che erano considerate uno scarto della società, destinate alla sola gestione della famiglia: così lei preleva dei legni per strada e attraverso il processo alchemico cui accennavo li trasforma dotandoli di una patina nera, bianca, dorata a significare che anche la donna doveva fare quello scatto sociale», aggiunge Bernardi. La mostra inizia con monumentali sculture autoportanti in legno dipinto di nero, per lo più senza titolo, come l’esemplare del 1964, una enorme «libreria» in cui sono collocati oggetti anch’essi di scarto. Si prosegue con le cosiddette «porte» sempre in legno nero, sospese a parete, realizzate nel 1976 unendo assi con oggetti tra cui sedute, schienali, gambe di sedie, prima di giungere a uno spazio destinato a sculture molto appiattite sulla parete, costituite da assemblaggi di elementi tipografici. Si arriva poi alla analisi della relazione tra il lavoro plastico di Nevelson e la pratica di collage di più piccole dimensioni in colori che vanno dal nero all’ocra, realizzati in legno grezzo, metallo, cartone, carta vetrata, alluminio: è la produzione che la studiosa Carla Lonzi (1931-82) definì di «distruzione-trasfigurazione» perché basato sulla trasformazione degli oggetti di recupero. La rassegna prosegue con alcune acqueforti e serigrafie degli anni Settanta mai esposte prima e con una videointervista dell’artista del 1978, risalente ai tempi di una mostra newyorkese dedicata alle sculture in legno dipinto di bianco, tra le ultime realizzazioni. Il percorso termina con alcuni grandi collage su legno dipinto di bianco e oro, sospesi a parete ed esemplificativi della trasformazione alchemica della materia. L’appuntamento, dunque, «materializza» la descrizione che Nevelson diede di sé stessa: «Mi sono sempre sentita donna … molto donna … Il mio lavoro… può sembrare vigoroso, ma è delicato … In esso c’è tutta la mia vita, e tutta la mia vita è femminile, io lavoro da un punto di vista completamente diverso. Il mio lavoro è la creazione di una mente femminile, non c’è dubbio… il mio modo di pensare trascende il concetto tradizionale di quello che rende il femminile opposto al maschile».

Louise Nevelson, «The Golden Pearl», 1962. © Fabio Mantegna. Courtesy of Gió Marconi, Milano

Stefano Luppi, 28 maggio 2025 | © Riproduzione riservata

Nevelson: «Nel mio lavoro c’è tutta la mia vita femminile» | Stefano Luppi

Nevelson: «Nel mio lavoro c’è tutta la mia vita femminile» | Stefano Luppi