Gian Enzo Sperone
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Diceva John Richardson,
il biografo di Picasso cui piaceva egualmente visitare l’arte classica e che possedeva tra gli altri un busto scolpito da Giacomo Antonio Ponzanelli, genero di Filippo Parodi (che oggi uno studioso attribuisce a Parodi stesso), che negli anni del dopoguerra, e io l’ho verificato tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta, la Madison Avenue di New York era come un museo continuo di bellezze e stranezze che si manifestava (a volte con vere «epifanie») nelle vetrine delle gallerie d’arte antica e moderna.
Bulini e puntesecche dei maestri incisori del Cinquecento, miniature indiane da Navin Kumar, busti romani acefali e non, quadri cubisti e futuristi ammiccavano attraverso i vetri delle gallerie su strada. Poi se uno era persistente e saliva per tre o cinque piani, scopriva altrettanto in magnifiche stanzette con pavimenti di legno incerati e scricchiolanti. Una già anziana signora di origine russa, Helen Serger, esponeva disegni di Legér, Balla e dei costruttivisti russi: la galleria si chiamava La Boétie e lì avevo visto per la prima volta John Richardson.
Anche l’archeologia romana e non solo era ben presente: ho comprato una testa romana, che possiedo ancora, per ingraziarmi un mercante di origini turche che la sapeva lunga sui tombaroli italiani. Secondo i Carabinieri di Roma, i graduati di Trastevere, tra un viaggio e l’altro a Manhattan avrei potuto indagare, senza dare nell’occhio, circa la presenza di un’importante scultura in bronzo proveniente dalla Magna Grecia: missione fallita.
Diceva invece Robert Rosenblum,
il (non mai abbastanza) compianto storico dell’arte e professore emeritus alla New York University, uno degli scopritori della Pop art dopo anni passati a indagare Neoclassicismo e Romanticismo e poi Cubismo (possiedo ancora la prima edizione del suo libro Cubism and Twentieth Century Art del 1960), che l’arte figurativa e la baracca che la teneva in piedi, con gli annessi e connessi noti solo alle spie interne, si erano ormai trasferite dalla Madison a Soho, la parte più antica di New York insieme alla Bowery. Lì tenevano banco letterati illustri e illustri bevitori e per le strade del quartiere (A.I.R.) si respirava cultura e perplessità e si vedevano ancora i più sfortunati reduci della guerra in Corea perdersi sui marciapiedi tra alcool e sostanze.
Per l’incredibile densità di gallerie e artisti, appunto lì dimoranti, già in strada si aveva più che una percezione dei nuovi orientamenti: anche solo attraverso le vetrine si percepiva, più che a Madison prima, il profumo acre delle nuove mitologie, il New Dada e la Pop art e poi l’Arte concettuale. Lì si sarebbe più tardi imposto il modello espositivo non più bottega ma deposito d’arte di Leo Castelli e dunque sarebbe iniziato il suo strapotere (benefico) nella West Broadway con nuovi cantori come Dan Flavin, Donald Judd e Joseph Kosuth; ma a cento metri da lì comandavano Carl Andre e Michael Heizer e si sottraeva vistosamente al confronto ravvicinato l’astro nascente On Kawara, che si dice allevasse farfalle in libertà nel suo studio e dipingesse senza sosta un quadretto precisissimo con la sola data del giorno; ne conservo uno datato «Sept. 17, 1975».
Questa diaspora provvidenziale avrebbe permesso a tutti, oltreché, beninteso, al professor Rosenblum, di vedere e dibattere democraticamente l’arte per strada (anche se ammoniva Carl Andre: «L’arte serve la rivoluzione, l’arte serve il capitalismo, l’arte serve entrambi e nessuno dei due» e si basa solo sulla selezione elitaria dei talenti e la democrazia è invece latitante).
Diceva Massimo Mila,
che a Torino, alla fine degli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta, tra via Viotti, via Po, Torri Palatine e poi via Carlo Alberto, ci si poteva tenere aggiornati sugli sviluppi dell’arte figurativa e/o le sue devianze senza scalare le vette dei voli transoceanici. Il professor Mila di vette si intendeva; da alpinista di altri tempi, aveva scalato quasi 60 cime di 4mila metri tra Alpi e Caucaso. Il grande musicologo, eccelso studioso del melodramma verdiano, oltre a farsi sette anni di galera a Regina Coeli (dove però avrebbe tradotto Le affinità elettive di Goethe), aver militato come partigiano di Giustizia e Libertà, aveva la sanissima abitudine di polemizzare sorridendo.
Le sue visite frequenti nella mia galleria di piazza Carlo Alberto, nella prima metà degli anni Sessanta, allora pochissimo frequentata a parte qualche addetto ai lavori, mi riempivano di orgoglio, concedendomi di sentire dal vivo, purtroppo raramente, delle perle di alpinismo, storia della musica, non senza brevi excursus nel suo passato politico degli anni Trenta. Obbligato di conseguenza a documentarmi su ulteriori dettagli non irrilevanti della storia patria, ho scoperto la figura di Ernesto Rossi, compagno di carcere di Mila di cui non avevo mai sentito parlare. Quest’ultimo, che dopo nove anni di reclusione era finito a Ventotene sempre per la delazione all’Ovra (la polizia segreta fascista, Ndr) del saluzzese Pitigrilli (nom de plume di Dino Segre), avrebbe concepito insieme ad Altiero Spinelli il «Manifesto di Ventotene» con le prime idee federaliste; che tempi.
In seguito, per l’influsso di Mila che non era tuttavia un chiacchierone, avrei imparato alcuni impressionanti dettagli della personalità di E. Rossi che, riferendosi al suo passato di volontario nella prima guerra mondiale e perciò definendosi «un non interventista intervenuto», ricordava che se non avesse presto conosciuto Gaetano Salvemini sarebbe facilmente sdrucciolato nei Fasci di combattimento. Ancora su Massimo Mila: quello che più mi impressionava di lui era la nonchalance con cui alludeva al suo passato di scalatore. Ma come trovava il tempo per prendere lentissime corriere e raggiungere montagne lontane e insieme tradurre il Siddharta di Herman Hesse? E per venti anni esercitare la critica musicale su «l’Unità»? e insegnare lungamente all’Università dopo essere stato l’insegnante di latino del giovane Giulio Einaudi? Ovviamente della Pop art e delle americanate dilaganti non gli importava un bel niente, ma un giovane come me appassionato da quella svolta lo poteva intrattenere mezz’oretta per uno scambio di informazioni.
Diceva Goffredo Parise,
che negli anni Sessanta a Roma, tra il caffè Rosati, piazza del Popolo e la galleria La Tartaruga, si svolgeva tutto l’essenziale inerente la nuova arte (presto alla moda) di Schifano, Festa, Fioroni e Twombly. Avrei dovuto attendere sino al 1979 per conoscere di persona questo letterato allora famoso, ancorché noto per certe asprezze di carattere. Dopodiché il nucleo delle gallerie cosiddette di avanguardia si sarebbe decentrato sino a Trastevere, via del Paradiso e via Quattro Fontane. Si avvicinava il momento del ritorno alla pittura così come inteso dalla Transavanguardia.
A Parise l’odore di trementina (non si sentiva con gli smalti di Schifano), che di nuovo faceva capolino nelle gallerie d’arte dopo il folle digiuno imposto dall’Arte povera e dall’Arte concettuale, piaceva assai, ricordandogli la sua adolescenza di aspirante pittore. Avrebbe presto spezzato il pennello in favore della penna per pubblicare nel 1950, a vent’anni, quel piccolo capolavoro Il ragazzo morto e le comete, che indirizzò per sempre la sua vita di scrittore. Si stupiva che un neofita come me conoscesse quel suo libro giovanile. Questo certamente favorì la nascita di un’amicizia tra sconosciuti (e di impari grado) sfociata poi nel 1981 (non dopo avermi «studiato» senza troppi formalismi) in un ritratto apparso sul «Corriere della Sera», in cui apparivo come un tipetto nervoso quasi febbricitante, convinto di avere in tasca il diamante nero e sempre con il passaporto in mano. Credo che di me lo incuriosisse la frenesia del viaggiatore/pendolare tra Roma e New York, dove dal 1972 andavo ogni mese per seguire avventurosamente una galleria d’arte.
Questa galleria ancora esiste e opera nella vecchia Bowery: proprio lui, che da scrittore/cronista aveva girato il mondo, fingeva forse di stupirsi delle mie attitudini quasi da commesso viaggiatore. Non fu così con Moravia e Arbasino, che pure visitavano occasionalmente la mia galleria romana accompagnati da Parise ed erano forse più presi dai loro suoni interni. Parise al contrario era curioso di tutto e di tutti e «girava non solo su sé stesso come una trottola», al contrario di come recitava Giacomo Leopardi con il suo scrivere «del nostro girare su noi stessi appunto come trottole».
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