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Cristina Valota
Leggi i suoi articoliIn questa intervista Massimiliano Gioni (Busto Arsizio, 1973) si definisce «un veterano delle biennali». Nel suo curriculum figurano infatti le cocuratele di Manifesta 5 a San Sebastián nel 2004 (con Marta Kuzma), della 4th Berlin Biennale nel 2006 (con Maurizio Cattelan e Ali Subotnick), della prima edizione della New Museum Triennial a New York nel 2009 (con Lauren Cornell e Laura Hoptman), seguite dalle curatele della 8th Gwangju Biennale nel 2010 e della 55ma Biennale di Venezia nel 2013. A queste si aggiunge l’attività di «advisor» per le Biennali di Lione del 2007 e per la 16th Biennale of Sydney del 2008 curata da Carolyn Christov-Bakargiev. Ma tutto ha avuto inizio nel 2001, quando è stato uno dei curatori della Biennale di Tirana, seguita nel 2003 dalla curatela di una sezione («La Zona», un padiglione temporaneo di arte italiana) della Biennale di Venezia diretta da Francesco Bonami. E il particolare legame con la più antica esposizione internazionale d’arte, di cui è stato il più giovane curatore (all’epoca aveva quarant’anni), è ribadito dal suo libro Caffè Paradiso. La Biennale di Ve-
nezia raccontata dalle sue direttrici e dai suoi direttori (edito da Johan & Levi nel 2024), nel quale Gioni, attraverso interviste che spaziano da Achille Bonito Oliva nel 1993 ad Adriano Pedrosa nel 2024, ripercorre trent’anni della storica rassegna.
Il prossimo anno, negli Stati Uniti, si svolgeranno tre importanti appuntamenti per l’arte contemporanea: a marzo l’82ma edizione della Biennale del Whitney, a maggio la 59ma Carnegie International a Pittsburgh, e la sesta edizione della Triennale del New Museum. Questa, in particolare, sarà inoltre la prima dopo la completata espansione del New Museum, che raddoppierà le sue dimensioni. Ci può anticipare qualcosa? La nuova Triennale come si posizionerà rispetto alle altre due mostre?
La Triennale del New Museum è ancora piuttosto un unicum a New York perché è la sola mostra ricorrente internazionale e con un focus specifico sulle generazioni emergenti: la prima edizione, qualcuno lo ricorda ancora, si intitolava «Younger Than Jesus» ed era stata la prima ricognizione della generazione millennial: da quella mostra sono usciti Ryan Trecartin, LaToya Ruby Frazier, Cyprien Gaillard, Josh Smith, Adam Pendleton, Cao Fei, Tauba Auerbach, Ryan Gander, Kerstin Bräetsch e tanti altri. E dalla Triennale del New Museum sono passati tantissimi artisti, tra cui Danh Vo, Adrián Villar Rojas, Lynette Yiadom-Boakye, Josh Kline, e molti altri. L’anno prossimo la Triennale del New Museum sarà per la prima volta cocurata da una curatrice non americana, Isabella Rjeille, brasiliana e curatrice al Masp, il Museu de Arte de São Paulo (quello diretto da Adriano Pedrosa, curatore dell’ultima Biennale di Venezia) e dalla curatrice del New Museum, Vivian Crockett. La stessa Biennale del Whitney ha scelto Drew Sawyer e Marcela Guerrero, che è diventata nota per una mostra su Puerto Rico: due curatori ai quali implicitamente è chiesto di continuare a espandere la definizione di arte «americana» che è sempre stata il focus della Biennale del Whitney. Anche se non hanno ancora annunciato titolo o artisti, con il contributo di Guerrero, di sicuro lo sguardo sarà puntato su un’idea di America assai più stratificata e composita, con importanti scambi con le origini latine e indigene degli Stati Uniti e dell’intero continente.
Nel 2006 lei ha cocurato la quarta Biennale di Berlino insieme ad Ali Subotnick e Maurizio Cattelan. Nel 2015, uno dei due curatori della Triennale del New Museum era l’artista Ryan Trecartin. Come valuta, in generale, il contributo degli artisti nelle vesti di curatori, in un momento in cui l’arte si direbbe cercare idee e supporti teorici al di fuori dei suoi attori tradizionali? In che cosa un artista curatore è diverso da un curatore-curatore?
Per quanto riguarda la mia esperienza personale, posso dire che collaborare con un artista, come Cattelan, alla realizzazione di una grande mostra è un’esperienza che permette di complicare e arricchire gli strumenti con cui si fa una mostra. Il bello di lavorare con un artista è che, in un certo senso, ti fornisce una licenza di trasgressione che come curatore non avresti. Non che poi la nostra collaborazione a Berlino fosse stata particolarmente provocatoria, nel senso irriverente che magari ci si aspetta da Cattelan. Al contrario, la nostra Biennale era una mostra molto seria, persino mesta a tratti, ma era una mostra molto visiva e nella quale la scelta degli spazi si legava in maniera molto originale alle opere in mostra. E poi, certo, ci eravamo anche tolti qualche sfizio che un curatore tradizionale forse non avrebbe mai avuto il coraggio di affrontare, come, ad esempio, aprire una finta galleria Gagosian in un bugigattolo dove, per un anno, prima dell’apertura della Biennale, avevamo curato mostre inusuali e sperimentali.
Non pensa che questa profusione di biennali abbia sostituito o molto limitato il ruolo che anni fa svolgevano mostre legate a temi specifici o mirate a documentare una particolare fase di ricerca in atto di diversi artisti? Penso a mostre come «Zeitgeist» (al Martin-Gropius-Bau di Berlino nel 1982 a cura di Christos M. Joachimides e Norman Rosenthal), «Sensation» (alla Royal Academy of Arts di Londra nel 1997 a cura di Norman Rosenthal con la collaborazione di Charles Saatchi) o «Post Human» (curata nel 1992-93 da Jeffrey Deitch prima al Museo di Arte Contemporanea di Losanna, poi al Castello di Rivoli)...
Sarà perché ormai sono un veterano delle biennali e perché per molti anni ho campato proprio grazie ad esse, ma non me la sento proprio di accusare il modello biennale di tutti i mali dell’arte contemporanea. È vero che forse le biennali hanno usurpato il ruolo di catturare lo spirito del tempo, per usare proprio il titolo di una delle mostre che ha citato, «Zeitgeist», ma questo è un merito. E poi la colpa forse va data ai musei, che programmando troppo spesso le loro mostre sulla base di calcoli di cassetta e vendita biglietti, hanno finito per fare sempre meno mostre a tema e sempre più mostre monografiche, delegando alle biennali il ruolo di talent scout e di testimoni del proprio tempo. C’è anche da dire che ormai sono piuttosto le fiere d’arte ad avere preso il posto delle biennali: tanti amministratori locali, sindaci e politici, che magari negli anni Novanta o all’inizio del nuovo millennio sognavano di lanciare nuove biennali, oggi purtroppo pensano di lanciare nuove fiere d’arte. E, con tutto il bene che voglio alle fiere e ai galleristi, preferisco decisamente le biennali come strumento di conoscenza e di condivisione dell’arte di oggi.

Una veduta della Triennale al New Museum «The Generational Triennial: Younger Than Jesus», 2009, con opere di Chu Yun, Tauba Auerbach, Cory Arcangel. Photo: Allison Brady
Non le pare che il gran numero di biennali abbia come conseguenza una certa monotonia e ripetitività nelle proposte dei curatori?
Questo è un argomento che si usava spesso per criticare le biennali soprattutto alla fine degli anni Novanta, quando c’erano alcuni artisti che, come certi giocatori di tennis, sembravano tornare anno dopo anno nelle rassegne di mezzo mondo. Maurizio Cattelan ne avrebbe fatto anche una parodia con la sua «Biennale dei Caraibi», che altro non era che una vacanza per la solita decina di artisti invitati a tutte le biennali... Questa proliferazione di biennali con alcuni artisti che tornavano di edizione in edizione era un fenomeno molto legato anche a una certa idea di globalizzazione, di nuovo, un po’ anni Novanta, alla United Colors of Benetton, che, per carità, univa anche certi ideali di convivenza e collaborazione che erano sinceri e capaci pure di creare intense discussioni e importanti scambi culturali. Questo idealismo un po’ naïf si sarebbe poi scontrato con la realtà di una nozione molto più asimmetrica e ruvida della globalizzazione, il cui evento simbolo forse è l’11 settembre: quindi non più comprensione e dialogo ma scontro e guerra; incomprensione più che scambio. In un certo senso, la Biennale di Venezia di Harald Szeemann del 1999, con il titolo «Dapertutto» e la presenza di grandi installazioni, che il critico del «New Yorker» Peter Schjeldahl avrebbe descritto come un nuovo «festivalismo», e l’ondata di artisti cinesi erano state forse l’apice dell’arte globalizzata degli anni Novanta, iperconnessa e internazionale, improntata a una sorta di lingua franca, mentre la documenta di Okwui Enwezor del 2002 cercava di raccontare un mondo a pezzi e di scontri e molteplicità di linguaggi, molti orgogliosamente stranieri.
Qual è un merito indiscusso delle biennali?
Il formato della mostra biennale ha avuto un ruolo fondamentale anche nella diversificazione dell’arte contemporanea. Cioè si possono sempre accusare le biennali di promuovere gli stessi artisti o di essere una forza che partecipa all’omologazione della cultura, ma in realtà basta guardare a biennali come quella dell’Avana o quella di San Paolo, che peraltro è la più vecchia, dopo quella di Venezia, o anche la biennale di Gwangju, per molti anni la più prestigiosa in Asia, o a quella purtroppo ormai chiusa di Johannesburg, per rendersi conto di come il formato biennale abbia riscritto interi capitoli di storia dell’arte dalla prospettiva di geografie e culture non occidentali, contribuendo a un allargamento della definizione stessa di arte.
Quanto è funzionale il fenomeno della «biennale diffusa» alla globalizzazione del mercato?
Non credo di avere una risposta semplice e definitiva. Certo la biennale diffusa, come la chiama, contribuisce ad aprire il mercato e, magari in certi casi, lo appiattisce, riducendolo a una lista ridotta di artisti, ma poi pensiamo a biennali come l’ultima di Venezia o quella precedente, quella di Cecilia Alemani alla quale ovviamente sono legato da tanti conflitti di interesse, essendo noi sposati: queste biennali, e forse anche la mia Biennale di Venezia del 2013 e la mia Biennale di Gwangju del 2010, erano piuttosto dei musei temporanei, come mi piace chiamarli. Cioè erano delle grandi mostre, non solo dedite a presentare l’arte di oggi ma anche a riscrivere e rivisitare l’arte del passato, secondo nuove traiettorie e prospettive. In questo tipo di mostra, in realtà, il mercato occupa una posizione davvero marginale, anche se poi però, quando sono davvero originali, queste mostre riescono anche ad avere profonde ripercussioni non solo sul mercato ma sull’apprezzamento di intere sezioni della storia dell’arte, come nel caso dell’arte outsider per la «mia» Biennale di Venezia o il «Surrealismo femminile», diciamo così, nel caso della Biennale di Alemani, due mercati emersi con forza sulla scia di queste mostre.
Infine, la «biennale diffusa» non rischia di essere artefice o complice di un certo «usa e getta» del gran numero di artisti coinvolti? Non è una sorta di consumismo espositivo?
Le biennali, se ben fatte, sono strumenti per pensare e ripensare l’arte, il presente e la storia. E in molti casi rifiutano proprio la logica usa e getta e, anzi, invitano a riscoprire interi mondi intellettuali ed emotivi. Quindi, mi spiace, no, non sono d’accordo. E poi chi si ostina a giudicare negativamente le biennali si è fatto un giro tra i corridoi di una fiera, dove molto spesso le opere in mostra non arrivano neanche a fine mese?