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Lusso, calma e ansietà

Diebenkorn subì il fascino di Matisse, ma lo declinò nell’angoscia del proprio tempo

Chi ha sufficiente familiarità con l’arte di Richard Diebenkorn conosce il suo debito, da lui stesso ammesso, nei confronti di Henri Matisse. La mostra «Matisse/Diebenkorn» aperta al San Francisco Museum of Modern Art (SFMoMA) fino al 29 maggio illustra questo tema come nessun progetto curatoriale aveva fatto sinora, raggruppando tematicamente 100 dipinti (40 di Matisse e 60 di Diebenkorn) e alcuni disegni dei due artisti, che non si incontrarono mai.
La mostra sostiene, in modo molto persuasivo, che Diebenkorn si sia ispirato direttamente a Matisse per l’uso dei colori, anche se in mostra l’unica occasione in cui si rischia veramente di confondere i due artisti è in una sala piena di disegni a carboncino e inchiostro di entrambi. I testi alle pareti e i saggi in catalogo spiegano come Diebenkorn (1922-93) vedesse in Matisse (1869-1954) un precursore autorevole della sua stessa ambivalenza su questioni come sincerità espressiva e resa formale. Da quasi tutti questi punti di vista, Matisse dei due artisti sembra il più completo, quello con più fiducia in se stesso e più consapevolezza delle sue origini culturali. Il primo incontro formativo tra Diebenkorn e l’arte di Matisse risale al 1943, mentre il primo studiava ancora alla Stanford University. Riconoscendo il talento del giovane pittore, un docente della facoltà lo portò nella casa di Palo Alto di Michael e Sarah Stein (il fratello e la cognata di Gertrude Stein), che erano importanti collezionisti di opere di Matisse. Nella prima sala della mostra si può vedere il ritratto di Sarah dipinto dall’artista francese nel 1916, di proprietà dello SFMoMA. L’arruolamento nei marine permise a Diebenkorn di completare i suoi studi a Stanford.

Nel 1944 era di stanza in Virginia con la nuova moglie Phyllis e ogni volta che ne aveva l’occasione visitava la Phillips Collection nella vicina Washington. Stava per essere trasferito nel Pacifico per partecipare all’invasione del Giappone quando le bombe su Hiroshima e Nagasaki costrinsero il Giappone alla resa. Secondo Jane Livingstone, coautrice del recente catalogo ragionato dell’opera di Diebenkorn, l’artista non abbandonò mai l’idea che l’invenzione più terrificante dell’umanità a lui avesse invece salvato la vita. All’ingresso della mostra (una scelta opportuna visto il suo impatto sul giovane Diebenkorn) è esposto «Studio, Quai Saint-Michel», una tela del 1916 di Matisse dalla Phillips Collection, che invita i visitatori a rintracciare nell’opera di Diebenkorn i richiami all’artista francese, anche se nelle prime astrazioni dell’artista americano ve ne sono pochi. Sono opere caratterizzate da colori e linee dai quali sembra che possa emergere qualsiasi soggetto. Quando, a metà degli anni Cinquanta, Diebenkorn seguì l’esempio dell’amico e mentore David Park (1911-60), rinunciando all’improvvisazione astratta a favore di immagini ispirate alla vita quotidiana, approfondì anche lo studio che Matisse conduceva sullo spazio come terreno nel quale si potevano intersecare soggetti e invenzioni. Con poche magnifiche eccezioni (in particolare l’imponente «Donna seduta» del 1967), le opere di Diebenkorn presentano figure umane che, confrontate con quelle di Matisse, appaiono sofferenti. I personaggi di Diebenkorn, frutto del ricordo o dell’immaginazione, sembrano più arredi inanimati.
Visitando la mostra torna in mente un’interessante osservazione del critico inglese Cyril Connolly: «È l’ora di chiusura nei giardini dell’Occidente e da questo momento in poi un artista sarà giudicato solo dall’eco della sua solitudine o dalla qualità della sua disperazione». Questa mostra sembra collocare i due artisti ora all’interno ora al di fuori dei «giardini dell’Occidente», che comprendono una tradizione pittorica capace di alimentare l’innovazione, la speranza di una vita civilizzata e la promessa di una tregua arcadica.
Alcuni dei quadri di Matisse degli anni Dieci, come «Veduta di Notre Dame» (1914), «Pesci rossi» (1914) e «Finestra francese a Collioure» (1914), continuano a colpire per la loro asperità e la finitura incerta. Successivamente però i suoi dipinti, anche le scene più intimiste come «Interno, fiori e parrocchetti» (1924), riprendono il suo sogno di un’arte come consolazione dalle difficoltà della vita. La nervosa frenesia delle prime astrazioni di Diebenkorn, l’anomia implicita delle sue migliori opere figurative e anche i reticoli dall’aspetto di cancelli della serie «Ocean Park» trasmettono invece tutti le vibrazioni di un’espulsione da qualche giardino. Recentemente Jane Livingston ha dichiarato che le principali ossessioni di Diebenkorn sono state «la rabbia contro la natura umana e il dolore per la storia», un’affermazione veritiera per tutti quelli che hanno conosciuto, anche poco, l’artista, come è successo a chi scrive. Il crescendo della mostra arriva con una serie di opere dal citato ciclo «Ocean Park» di Diebenkorn. Con questi dipinti, iniziati a fine degli anni Sessanta, l’artista trovò un linguaggio per drammatizzare la pittura come risposta vitale alla sua epoca. La serie richiama la tensione tra i materiali usati, pennelli, colore, carboncino, e il palinsesto in cui si era trasformata la tela bianca a metà del Novecento, oltre all’incombere di un futuro pericoloso.
 

Kenneth Baker, 08 maggio 2017 | © Riproduzione riservata

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