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Giacomo Balla (1871-1958), torinese di nascita e romano d’adozione per avere trascorso nella capitale l’intera esistenza a partire dal 1895, si trasferisce temporaneamente a Parma dalla sua abituale «dimora» alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea (Gnamc). Proprio dal museo romano giunge a Palazzo del Governatore (Pr), per la prima volta nella sua interezza, la produzione Balla, la più ampia al mondo conservata in un museo pubblico: oltre 60 opere che costituiscono la mostra «Giacomo Balla, un universo di luce. La collezione della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea», visitabile dal 10 ottobre al primo febbraio 2026 e a cura di Cesare Biasini Selvaggi e Renata Cristina Mazzantini con la collaborazione di Elena Gigli, autrice del catalogo generale dell’artista insieme a Maurizio Fagiolo dell’Arco.
La retrospettiva parmense ripercorre l’intera carriera dell’artista e si fonda in particolare sui due nuclei di lavori donati alla Gnamc dalle figlie Lucia-Luce ed Elica, rispettivamente nel 1984-88 e nel 1994: dà conto così degli inizi divisionisti sulla scia di Segantini e Pellizza da Volpedo impostati sulla passione per la fotografia, che gli instillò il padre chimico e fotografo dilettante perduto in giovane età, per poi inoltrarsi nell’analisi della sua produzione a partire dal Futurismo, di cui firmò nel 1910 il «Manifesto dei pittori futuristi». Ben presto Balla manifestò autonomia lasciando via via la pennellata scomposta futurista per approdare all’uso di smalti industriali con cui dare vita a dipinti e forme tridimensionali polimateriche dominati, rispettivamente, da campiture e forme astratte e geometrizzanti. A Roma Balla indaga anche i movimenti cosmici in quadri dalle forme pure e anche legati all’arte meccanica del movimento della macchina. Dal 1933 chiude definitivamente l’esperienza futurista aprendosi a esperienze di teosofia e giungendo a una pittura che potremmo definire di realismo fotografico. Tutto ciò il visitatore lo ritrova per sommi capi nelle Sale del Governatore, dove le opere poste in ordine cronologico e tematico sono suddivise in 13 sezioni arricchite anche da apparati fotografici, biografici e storici provenienti dall’Archivio Gigli.
Il percorso si apre con «Nello specchio» (1901-02), dove sono rappresentati l’amico scultore Giovanni Prini con sua moglie, lo scrittore Max Vanzi e lo stesso pittore, collocato nei pressi di uno dei nuclei più significativi dell’artista, «Dei viventi»: delle 15 opere realizzate ne sono giunte a noi solo quattro, dedicate alle persone emarginate, com’è evidente ne «La pazza», una donna dall’atteggiamento stravolto immortalata sul terrazzo della sua casa. Il percorso prosegue analizzando il rapporto tra i disegni preparatori e il dipinto finito, un aspetto fondamentale in Balla: ne è un chiaro esempio lo studio per «Fallimento» (1902 ca), che Enrico Crispolti individuò come sorprendente precursore delle litografie dei muri parigini del 1945 di Jean Dubuffet. Del periodo futurista la mostra propone anche i bozzetti «I ritmi dell’archetto» e studi sull’iride del 1912, realizzati a Düsseldorf: questi ultimi diverranno poi le notissime «Compenetrazioni iridescenti», tra le più alte espressioni della ricerca artistica di Balla. Seguono i disegni di «Volo di rondini», con l’intenso «Espansione dinamica + velocità N. 9» (1913 ca) e, soprattutto, esposto al pubblico dopo mezzo secolo, il disegno coevo «Linea di velocità + spazio» cui segue l’imponente dipinto «Forme-volume del grido “Viva l’Italia”», parte del ciclo delle «Dimostrazioni interventiste», di cui per la prima volta sono mostrati anche gli esiti delle analisi radiografiche. Le sezioni conclusive sono dedicate all’ultima attività, con l’olio su tavola «La fila per l’agnello (detto a Roma abbacchio)», dipinto nell’inverno del 1942.

Giacomo Balla, «Madre», 1902 ca, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea. © Giacomo Balla, by Siae 2025