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L’inverosimile masochismo degli italiani in materia d’esportazione

Nel rispetto del diritto di prorpietà, in fatto di esportazione e circolazione di beni culturali, basterebbe prendere esempio dalle buone pratiche dei paesi europei confinanti o vicini all’Italia

Giuseppe Calabi

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Il principio della libera circolazione delle merci è la prima delle quattro libertà fondamentali del mercato interno europeo, ed è garantita attraverso l’eliminazione dei dazi doganali e delle restrizioni quantitative e dal divieto di adottare misure di effetto equivalente. Sul presupposto che i beni artistici e, in genere, tutte le cose che presentano interesse culturale non possano essere equiparate alle merci, l’articolo 36 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea e prima ancora il Trattato di Roma del 1957 hanno previsto un’eccezione al principio della libera circolazione delle merci, prevedendo che siano impregiudicati i divieti e le restrizioni all’esportazione giustificati da motivi di protezione del patrimonio artistico, storico o archeologico nazionale.

Storicamente, in Italia i divieti e le restrizioni all’esportazione dei beni culturali hanno preceduto di quasi mezzo secolo le norme dei Trattati europei: la prima legge organica sulla tutela dei beni culturali risale al 1909 e affonda le sue radici nelle norme degli Stati preunitari. Nella prefazione del volume Raffaello tra gli sterpi. Le rovine di Roma e le origini della tutela, Salvatore Settis e Giulia Ammannati ipotizzano che tra i pilastri fondativi della normativa di tutela (di cui fanno parte le norme sul controllo all’esportazione), vi sia la nota Lettera a Leone X, scritta a quattro mani da Raffaello e Baldassarre Castiglione, mai completata, né giunta al destinatario. Ancora prima del Trattato di Roma, l’articolo 9 della Costituzione annovera tra i principi fondamentali della Repubblica la tutela del patrimonio artistico della Nazione.

Sulla base di queste premesse storiche, si capisce come la normativa sulle esportazioni dei beni artistici sia resistente alle riforme. Eppure, se si confronta il quadro normativo italiano con quello di altri paesi europei, che prevedono analoghi divieti e restrizioni all’esportazione giustificati da motivi di protezione del patrimonio artistico e storico, si intuisce il rischio che la nostra storia plurisecolare possa far perdere al Paese una grande opportunità. Se le maglie della tutela sono troppo strette, si rischia infatti di soffocare la circolazione dell’arte, che è anche circolazione della conoscenza dell’arte fuori dall’Italia, anche a scapito del lavoro degli artisti italiani moderni o contemporanei.

Le linee guida della riforma dovrebbero innanzitutto parificare le soglie di valore sotto le quali lo Stato non potrebbe imporre restrizioni o divieti, come previsto per i dipinti in Francia (euro 300mila), Inghilterra e Germania (euro 150mila): la soglia unitaria di euro 13.500 introdotta dalla Legge Concorrenza 124/2017 è totalmente inadeguata e l’Italia dovrebbe adottare almeno le soglie comunitarie introdotte nel Regolamento (CE) 116/2009. Imporre maggiori restrizioni, non solo costituisce una pratica di gold plating (il divieto di gold plating comporta che non si possano stabilire oneri a carico degli operatori economici ulteriori rispetto a quelli previsti dalle direttive europee, Ndr) severamente criticata dalle istituzioni europee, ma comporta un dispendio di risorse pubbliche dedicate al controllo di beni troppo spesso privi di reale importanza per il nostro patrimonio culturale.

Inoltre, nel rispetto del diritto di proprietà privata, lo Stato dovrebbe indennizzare la perdita di valore rappresentata da un provvedimento di tutela (come avviene in Francia) e prevedere che il divieto di esportazione sia bilanciato da un obbligo di acquisto dell’opera che si intenda trattenere in Italia a prezzi che riflettano quelli del mercato internazionale, anche al fine di assicurarne la pubblica fruizione (come avviene in Francia e in Inghilterra).

In un contesto di globalizzazione dell’arte e della cultura, non ha più senso adagiarsi sulla obsoleta distinzione tra Paesi produttori di beni artistici (source countries, tra cui l’Italia) e Paesi di «mercato» (market countries, ad esempio la gli Stati Uniti o l’Inghilterra), per la quale i primi dovrebbero chiudere le frontiere per evitare un impoverimento del proprio patrimonio a favore dei secondi. Basti pensare all’arte moderna e contemporanea e alla scarsa presenza di artisti italiani nelle raccolte pubbliche che milioni di visitatori possono apprezzare fuori dai confini italiani. Non è necessario inventare la ruota: basta prendere esempio dalle buone pratiche dei paesi europei confinanti o vicini all’Italia.

Giuseppe Calabi, 28 aprile 2023 | © Riproduzione riservata

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