Foto dal backstage di «Your Storm Our Dew», di Cleo Fariselli. Almanac Inn, Torino (29 ottobre 2022-9 febbraio 2023). Cortesia dell’artista e di Almanac Inn, Torino. Progetto realizzato con il sostegno dell’Italian Council (2021). Foto: Silvia Mangosio

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Foto dal backstage di «Your Storm Our Dew», di Cleo Fariselli. Almanac Inn, Torino (29 ottobre 2022-9 febbraio 2023). Cortesia dell’artista e di Almanac Inn, Torino. Progetto realizzato con il sostegno dell’Italian Council (2021). Foto: Silvia Mangosio

L’estetica emergenziale di Cleo Fariselli

Un suo video, che attualmente è presentato presso Morpho di Anversa ed entrerà nelle collezioni del MAMbo di Bologna, riflette sulla pressione fisica ed emotiva cui sono sottoposti gli esseri umani così come gli organismi estremofili

Serpenti con la livrea del colore delle strisce segnaletiche, un centipede formato da gilet ad alta visibilità, un organismo con tentacoli di tute protettive. Sono solo alcune delle creature che possiamo incontrare nel video «Your Storm Our Dew» di Cleo Fariselli, presentato fino a venerdì 9 giugno negli spazi di Morpho, organizzazione non profit di Anversa. Realizzato grazie al sostegno dell’Italian Council, e mostrato per la prima volta a ottobre 2022 da Almanac Inn, a Torino, il video entrerà a far parte della collezione permanente del MAMbo di Bologna. Abbiamo rivolto qualche domanda a Cleo Fariselli, perché ci raccontasse la genesi del progetto e i suoi sviluppi.

In che modo è nato «Your Storm Our Dew»?
La prima scintilla che ha dato origine al lavoro è stata, come spesso mi accade, un’intuizione improvvisa e inaspettata. Mi trovavo a un incrocio stradale particolarmente rumoroso, con gli ululati di alcune sirene che si accavallavano, mentre sul mio smartphone scorreva, come un mosaico inarrestabile, un flusso di notizie allarmanti. In quel momento la mia mente ha iniziato a fantasticare e ho concepito l’idea di un nuovo habitat. Una dimensione pseudonaturale in cui l’emergenza non fosse una condizione straordinaria, bensì la norma. Questa è stata la prima suggestione poetica ed emotiva. Da allora sono passati anni, una miriade di ulteriori riflessioni e fantasticherie, e la possibilità di sviluppare e realizzare il progetto grazie all’Italian Council.

In quel momento, all’incrocio, si era già figurata l’opera in forma di documentario?
No, il processo di lavoro è stato lungo e ha preso corpo per gradi. Mano a mano che procedevo mi era sempre più evidente che «Your Storm Our Dew» non si riferisse tanto alle emergenze di per sé, quanto alla comunicazione mediatica e alle modalità spesso allarmistiche e sensazionalistiche con cui gli organi di informazione sollecitano in noi uno stato di tensione dilatato all’infinito. Attraverso i nostri dispositivi tecnologici siamo costantemente connessi a un flusso di informazioni inarrestabile che ci espone a eventi e scenari drammatici e ansiogeni provenienti da ogni angolo del mondo. In quanto animali calati nella materialità del presente, relazionarsi con questo senso di allarme costante è molto stressante ed emotivamente impegnativo.

Il video è una possibile risposta alla domanda (parafrasata da un passaggio del video stesso): «che cosa succede nel buio delle nostre teste mentre i nostri volti sono illuminati dal freddo bagliore dei nostri dispositivi?».

Il format del documentario è un espediente narrativo che mi ha permesso di proporre un’immersione in uno scenario surreale e bizzarro in un modo molto semplice e credibile. La familiarità che tutti noi abbiamo con quel format rappresentativo mi ha permesso di «agganciare» l’attenzione dello spettatore per condurlo in scenari inediti. Inoltre mi ha consentito di sollecitare un riferimento esplicito al mondo mediatico a cui volevo fare riferimento e di cui lo stesso documentario naturalistico è un’espressione e un’emanazione.

Nel video lei si rifà a un particolare tipo di spettacolo teatrale.
Il teatro su nero è una forma di teatro di figura in cui i personaggi paiono muoversi da soli galleggiando nel buio. Ho amato questa tecnica fin da piccola, da quando a circa sei o sette anni i miei genitori mi portarono a uno spettacolo dei Mummenschanz, che a tutt’oggi è la compagnia di questo stile teatrale che più mi ha interessata e ispirata.

Nel caso di «Your Storm Our Dew», la tecnica è stata reinventata a favore del video. È stato un processo di sperimentazione visiva molto avvincente, iniziato con la costruzione dei costumi e dei props (in collaborazione con gli artisti Moe Yoshida e Nicholas Polari) e tradotto in immagine in movimento grazie alla collaborazione con il direttore della fotografia Pierluigi Laffi.

Ogni creatura che compare nel video rappresenta un particolare stato di emergenza. In che modo le ha selezionate tra le varie situazioni di emergenza possibili?
Ci sono creature ispirate ad ambiti emergenziali specifici, come ad esempio la paura del contagio o degli incidenti stradali, mentre altre sono meno connotate. Ho cercato di non applicare dei vincoli troppo stretti ma piuttosto di assecondare un processo creativo fluido. Nel corso della preparazione dei costumi raccoglievo le mie suggestioni visive ed emotive in un moodboard nel quale tracciavo parallelismi visivi ed emotivi tra scenari emergenziali (che ho analizzato con un occhio trasversale, ovviamente senza nulla togliere alla gravità dei fatti in sé) e altri contesti. Le fonti dalle quali ho attinto sono molto diverse.

Ho approfondito dei riferimenti di tipo naturalistico. Quello più evidente è il mondo degli abissi, un habitat poco noto, dominato dal buio, estremo anche per le forme di vita che lo abitano. Trovo questo rimando particolarmente calzante anche per il parallelo tra la pressione fisica a cui sono soggette queste creature e la pressione emotiva generata dagli stati di emergenza. Sempre in ambito naturalistico, mi sono addentrata nello studio degli organismi estremofili, riflettendo sui quali ho concepito anche il titolo del video.

Si tratta di micro organismi in grado di vivere e prosperare in condizioni che per noi umani sarebbero impensabili: vicino a vulcani sottomarini con altissime concentrazioni di metano, temperature infernali, laghi velenosi… In una delle lezioni di un breve video-corso dell’Università di Kyoto che ho seguito per approfondire questo tema, il professor Atomi mostra l’albero della vita, uno schema che rappresenta la parentela tra tutte le creature viventi. Se gli esseri umani e i funghi si trovavano a, ipotizzo, 3 cm di distanza tra loro nello schema, gli esseri umani e gli organismi estremofili si trovavano a 15 cm, praticamente agli antipodi del diagramma! Questo per dire quanto siano distanti da noi queste forme di vita che, pur coesistendo con noi sul pianeta Terra, sono quanto di più simile a un alieno noi possiamo incontrare.

Il titolo deriva quindi dal voler mostrare due prospettive compresenti ma opposte su uno stesso fenomeno: ciò che per alcuni è un inferno, per altri può essere un paradiso; ciò che per alcuni è una terribile tempesta per altri è delicata rugiada. 

Un’altra suggestione è stata quella delle feste, e di come i raduni rave abbiano a loro volta integrato un’estetica emergenziale, ma in chiave positiva e vitale. Le tute protettive bianche, le maschere antigas, le luci abbaglianti sono tutti elementi presenti nell’estetica rave degli anni ’90. Elementi in sé violenti, ma che decontestualizzati alludevano a una grande esplosione energetica, la cui componente di dissenso sfociava nella catarsi e nella condivisione. Questi sono alcuni degli ingredienti che hanno contribuito a formare l’humus da cui è nato «Your Storm Our Dew».

Verso la fine del video, la voce narrante, che scopriamo provenire proprio da una delle creature, pronuncia la fatidica frase «siamo tutti venuti dall’occhio e abbiamo fatto dell’oscurità la nostra casa», e questo si esprime nell’enigmatica sequenza finale in cui una mano inserisce delle piccole sculture in quello che sembra essere un grande occhio. Queste sculture hanno forme molto diverse da quelle delle creature che lei presenta nel video.
Il finale, nel suo essere enigmatico, è la chiave di lettura del lavoro. È un po’ come accedere alla sala macchine di quello che poi si sviluppa nel resto del video. Delle forme misteriose vengono calate da una mano dall’apparenza mistica, luciferina, nella pupilla acquosa di un grande occhio stilizzato, nella quale le vediamo lentamente sprofondare. Quest’azione ripetitiva e cadenzata viene portata al parossismo da un graduale aumento della pressione sonora ed emotiva generato da Federico Chiari grazie all’uso della scala Shepard, un’illusione sonora che crea un crescendo ascensionale potenzialmente infinito.

Questa scena è la trasposizione di un sogno che ho realmente fatto. Una spiegazione lineare non c’è, ma ci sono molteplici livelli di suggestione e di possibili significati che si intrecciano. Le piccole sculture possono essere interpretate come dei semi o delle uova, che schiudendosi nel buio della mente genereranno il mondo di creature esplorato dal video.

È un’allegoria delle immagini e delle informazioni a cui siamo costantemente sottoposti che, dopo essere state «piantate» nei nostri occhi e sprofondate nella mente, attecchiscono nella nostra psiche, vivendo di vita propria. Non possiamo prevedere in che modo le immagini e le informazioni che assorbiamo influenzeranno il nostro pensiero, i nostri stati onirici, il nostro inconscio o la nostra vita in generale. È un flusso costante che ci investe, i cui effetti sono in buona parte imprevedibili.

Queste figure che lei immerge nell’occhio mi ricordano molto le sculture che impiega nella sua serie di performance «U.». Vede un collegamento tra questi due lavori?
Sicuramente c’è una relazione. «U.» è un lavoro ibrido tra un’esposizione e una performance, in cui una selezione di oggetti di piccole-medie dimensioni (sculture, props, dipinti, disegni, oggetti trovati…) vengono mostrati a piccoli gruppi di spettatori. Tutto avviene tra le mani. Gli oggetti sono esibiti prima nelle mie mani, che li contestualizzano con gesti, azioni o intenzioni, e poi vengono passati di mano in mano tra i partecipanti. Questo semplice schema di azioni si apre a una quantità di variabili potenzialmente infinita, perché ogni oggetto coinvolto può essere recepito in maniera completamente diversa a seconda del modo in cui viene presentato e della sequenza di elementi in cui è inserito (uno dei modi in cui mi piace pensare a «U.» è come a una mostra installata nel tempo, oltre che nello spazio).

La fruizione delle opere coinvolge tutti i sensi, perché di questi oggetti si percepisce il peso, l’odore, il suono, la qualità tattile… una prospettiva molto stimolante per me come autrice perché mi permette di considerare aspetti che, rispetto per esempio a una scultura che viene installata su un classico plinto, sono molto più variegati e sottili. Poi c’è l’interazione con il pubblico. Gli spettatori, pur influenzati dal modo in cui propongo un oggetto, ci mettono sempre del proprio, per cui ogni sessione diventa un’esperienza a sé, un momento di fruizione condiviso, quasi un rito basato su una dimensione di scambio.

Dal 2014 in avanti (la performance è nata nel 2012) «U.» si è arricchito della collaborazione con mio padre Patrizio Fariselli che aggiungendo un contributo musicale live, ha reso il lavoro ancora più immersivo ed esperienziale. Più che un progetto singolo, «U.» è per me un contenitore, uno spazio di potenzialità. Non mi sorprende quindi che una sua eco abbia risonato anche in «Your Storm Our Dew».

Il video l’ha pensato prima del periodo di emergenza pandemica, emergenza che ora è evoluta in un quotidiano e costante allarme bellico. Quello stato di tensione che ha captato anni fa oggi è palese e condiviso. In che modo è cambiato il suo modo di guardare al video oggi rispetto a quando l’ha concepito?
Quando è esplosa per la prima volta l’emergenza della pandemia ho avuto un momento di crisi riguardo al progetto. Ho temuto che la mia prospettiva potesse risultare troppo leggera rispetto allo scenario e alla gravità della situazione in corso. Mi sono chiesta se ci fosse la necessità di ripensare o addirittura di abbandonare il progetto. Poi ho realizzato che il lavoro si riferisce a qualcosa che sta a monte, cioè al modo in cui viene gestita la comunicazione delle emergenze. Per questo sono rimasta fedele all’idea originaria, perché portava con sé un punto di vista ancora valido su quello che stavamo e stiamo vivendo.

Uno degli elementi del video che più mi ha colpito è la voce narrante, e come questa abbia un tono solo all’apparenza oggettivo, e che più che illustrare i personaggi tende a instillare le paure e gli stati di tensione che questi rappresentano.
Quando ho deciso di strutturare il video come un mockumentary, ossia un falso documentario, ho pensato che sarebbe stato molto efficace inserire una voce archetipica propria del documentario. Ho subito pensato a David Attenborough e ai documentari naturalistici della Bbc narrati con quel suo tono estremamente rassicurante, razionalizzante, paterno. Facendo ricerca ho scoperto che nell’ambiente televisivo questo tipo di voce maschile onnisciente viene chiamata «Voice of God».

Questa voce è a tutti gli effetti un dispositivo mediatico che presenta se stesso con estrema autorevolezza, proprio in virtù della fiducia istintiva che suscita. È stato quindi molto divertente  e interessante usarla come espediente narrativo per introdurre lo spettatore a un mondo bizzarro, atipico e inaffidabile mettendo in questione la voce stessa, per arrivare a decostruirla nel colpo di scena finale in cui si scopre che la stessa «Voice of God» è in realtà un’emanazione di una delle enigmatiche creature del video.

Il riferimento a diversi e distanti punti di vista mi fa venire in mente la sua videoperformance «Me as a star» (2021).
È la prima volta che ci penso in collegamento a «Your Storm Our Dew». Forse c’è proprio questa concezione della vita come un piccolo bagliore, la lucina all’orizzonte nelle fiabe che dà speranza al protagonista quando è perso nel bosco. Quel fioco segno di presenza in un mondo buio e misterioso mi scalda, mi commuove e mi rimanda alla nascita della vita. Se pensiamo agli estremofili, siamo colti da meraviglia e perfino da tenerezza nei confronti di queste creature che hanno saputo fare di un habitat tanto ostile la propria casa. Un sentimento che mi rimanda alle foto della Terra riprese dagli astronauti, in cui il nostro pianeta appare come un puntino colorato negli abissi siderali dello spazio profondo.

In quel video lei viene ripresa da molto lontano mentre balla vestita di un tessuto riflettente, e chi guarda il video non la vede, non sa come sta ballando, vede solo un bagliore.
La differenza tra prospettive è un concetto che mi interessa molto. Ad esempio pone delle questioni su dove comincia l’individualità e dove l’ambiente, su quanto siamo commisti con ciò che ci circonda. Il rapporto tra figura e sfondo è una questione oggettiva o soggettiva? In «Your Storm Our Dew» viene presentato il punto di vista di una moltitudine di nuove creature le cui priorità e prospettive sulla realtà sono diametralmente diverse dalle nostre, per non dire opposte.

La sua serie di sculture «Gran Papa» ha sempre a che fare con l’oscurità, con il colmare una distanza, con il rendere una difficoltà la parte peculiare del lavoro. In quei lavori scolpisce dei mezzi busti in negativo, scavando alla cieca in blocchi di argilla. La figura finale «viene alla luce» versando del gesso acrilico da odontotecnico nel suo scavo.
Effettivamente anche in quel caso si tratta di creare delle condizioni diverse che permettono ad altre forme di emergere, ed è presente la tematica della visibilità altra, del vedere in modo diverso, o attraverso altri canali. Il concetto di visione è una tematica che ricorre spesso nel mio lavoro, per esempio nelle ceramiche Raku, queste cavità che sono parti del corpo in negativo e che per me sono degli ambienti in cui far penetrare, contestualizzare lo sguardo. In altri lavori cerco di trasformare lo sguardo in maniera fisica, per esempio in «Scopio» (2019), una scultura attraverso la quale puoi guardare attivando un gioco percettivo. C’è un rapporto stretto tra la capacità immaginifica sul mondo e l’approccio fisico con cui a questo ci relazioniamo.
 

Foto dal backstage di «Your Storm Our Dew», di Cleo Fariselli. Almanac Inn, Torino (29 ottobre 2022-9 febbraio 2023). Cortesia dell’artista e di Almanac Inn, Torino. Progetto realizzato con il sostegno dell’Italian Council (2021). Foto: Silvia Mangosio

Cleo Fariselli. Foto: Silvia Mangosio

Matteo Mottin, 27 maggio 2023 | © Riproduzione riservata

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