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Nicoletta Biglietti
Leggi i suoi articoliRestituire al corpo maschile quella vulnerabilità, complessità e umanità che la tradizione aveva riservato solo alle donne. Perché sta nell’audacia di ribaltare il concetto di “corpo femminile” come contenitore – silenzioso – del desiderio maschile la potenza evocativa di Sylvia Sleigh, un'artista che ha fatto del corpo “virile” uno strumento visivo di riscatto.
Nata nel 1916 (morirà nel 2010 a New York), nel pieno della Grande Guerra, a Llandudno, nel Galles, Sylvia Sleigh cresce in un'Inghilterra che non ha né tempo né pazienza per le donne con ambizione. Alla Brighton School of Art nel Sussex, che ha frequentato dal 1934, rifiuta fin da subito l’idea che i modelli di nudo fossero solo donne. Vuole dipingere uomini e vuole parità. Ma lo vuole, purtroppo, in un'epoca in cui cercare equità è considerato “provocare”.
Dopo gli studi, la sua prima vita adulta non si consuma tra colori e pennelli, bensì tra stoffe e cuciture, con un marito — artista mediocre, ma egoista “acutissimo” — che le tarpa ogni velleità pittorica. Lei però, invece di spegnersi, si reinventa: sarta, stilista, imprenditrice. Brilla anche lì. E forse proprio questo, paradossalmente, le vale il definitivo abbandono da parte di quell’uomo. Una separazione che, però, più che una disfatta pare per lei un colpo di fortuna.
Una fortuna, perché è solo con il divorzio che Sleigh rinasce. Libera dal fardello coniugale, si iscrive infatti a corsi serali di storia dell’arte. Qui conosce Lawrence Alloway: giovane brillante, affamato d’arte e di idee che, soprattutto, non la teme. Anzi, le dà ciò che nessun altro uomo prima le aveva mai concesso: rispetto, incoraggiamento e incondizionata stima. Nasce una coppia che è un laboratorio di pensiero, una fucina di visioni. Lui diventerà il teorico della Pop Art e lei, intanto, torna a dipingere.

Sylvia Sleigh, «A.I.R. Group Portrait», 1977–78
Espone, da quel momento, in collettive prima e in personali poi. I suoi primi lavori sono severi, pieni dell’eco di una guerra ancora fresca. Ma è a New York, nel 1961, che la sua arte sboccia davvero, perché qui, seguendo il marito – ora curatore al Guggenheim – trova finalmente un ambiente fertile ove piantare il suo seme più audace: ritrarre nudi maschili, non generici, non idealizzati, ma reali e terribilmente “umani”.
È infatti nei primi anni ’70 che Sylvia Sleigh, armata di pennello e lucidità, ribalta i codici visivi secolari: al posto di Venere, ecco uomini nudi; invece delle odalische, ecco critici e artisti distesi su divani e tappeti. È un ribaltamento di potere, un gesto radicale e rivoluzionario. Perché Sleigh non ridicolizza i soggetti, non li oggettivizza in senso vendicativo, ma li espone, rendendoli vulnerabili. È infatti un erotismo consapevole il suo, quello di un'artista, cioè, che ben conosce la storia dell’arte ma che si rifiuta, radicalmente, di ereditarla in modo passivo.
E a rivelarlo sono proprio le citazioni da Velázquez e Ingres, che diventano per lei strumenti adatti a sovvertire la narrazione visiva patriarcale: nel suo «Philip Golub Reclining» (1971), infatti, Sleigh prende in prestito la posa della celebre «Venere Rokeby» di Velázquez, ma ci mette un uomo. Così avviene il cortocircuito visivo nell’opera, perché lo sguardo cambia e la gerarchia si incrina. Ma il vero punto di svolta arriva nel 1973 con «»The Turkish Bath: qui Sleigh prende Ingres e lo riscrive. Letteralmente. Le figure femminili lasciano spazio a uomini "veri”: il marito Alloway, Paul Rosano, Carter Ratcliff e altri volti della scena newyorkese. Pochi, selezionati, ciascuno colto nella sua identità, nelle sue pieghe, nei suoi silenzi. La citazione è evidente – Rosano riprende perfino la posa della musicista colta di spalle – ma lo sguardo, stavolta, è reciproco.

Sylvia Sleigh, «The Blue Dress», 1970
Nei suoi nudi maschili, infatti, Sleigh fa quello che gli artisti uomini hanno sempre fatto con le donne, ma con una differenza fondamentale: ogni corpo ha un volto vero e ogni posa una vera personalità. Nessun cliché e – soprattutto – nessun corpo sacrificato sull’altare dell’estetica.
Ma Sleigh, lo sa, si muove in un territorio difficile, scivoloso. La scena newyorkese la riconosce, ma non la consacra. Il suo lavoro è troppo figurativo per l’arte concettuale, troppo "femminile" per un sistema che continua a misurare il genio con parametri maschili. Tuttavia, dietro le quinte, la sua influenza è decisiva: è tra le fondatrici della SOHO 20 Gallery e della cooperativa A.I.R. Gallery, spazi gestiti da artiste per le artiste, in cui la militanza culturale si intreccia con la pratica artistica; è promotrice di mostre collettive femministe come «Women Choose Women» (1973), e attiva sostenitrice di una nuova genealogia dell’arte.
Lontana dalle mode, dunque, Sylvia Sleigh ha costruito una ricerca coerente, coraggiosa e lungimirante, che solo oggi la critica – anche grazie alla mostra «The Human Situation: Marcia Marcus, Alice Neel, Sylvia Sleigh» da Lévy Gorvy Dayan, a New York fino a 21 giugno – sta iniziando a riconoscere davvero. Perché la pittura di Sleigh non è solo bellezza, ma è proposta radicale di un nuovo sguardo. Quello sguardo in grado di rendere il corpo “virile” uno strumento visivo – e vivo – di riscatto profondo ed emotivo.