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La Stele di Kaminia allestita alla Fondazione Luigi Rovati © Daniele Portanome per Fondazione Luigi Rovati

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La Stele di Kaminia allestita alla Fondazione Luigi Rovati © Daniele Portanome per Fondazione Luigi Rovati

Le peripezie della Stele di Kaminia dell’isola greca di Lemno

Sotterrata per nasconderla ai francesi, ritrovata e poi rubata dal comandante di un veliero greco, ora è esposta nella Fondazione Luigi Rovati

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Ada Masoero

Giornalista e critico d’arte Leggi i suoi articoli

Nessuno, imbattendosi nella Stele di Kaminia (una lastra di calcare di cui resta solo la metà superiore) potrebbe sospettare di essere di fronte a un reperto tanto prezioso. Alta poco più di un metro, dei due che doveva misurare nel VI secolo a.C. quando fu scolpita, la stele mostra il profilo, a bassissimo rilievo, di un armigero con lancia e scudo tondo, grande naso, occhi oblunghi e un rigido sorriso, com’era d’uso nell’isola greca di Lemno dove la stele (segnacolo funebre di un personaggio di rango, tale «Aker, figlio di Tavarsa» oppure «Holaye da Focea») fu rinvenuta tra il 1883 e il 1885.

Il guerriero è anche barbuto, come si è scoperto solo ora, da che è esposta (fino al 16 luglio) con un’illuminazione perfetta nell’ipogeo della Fondazione Luigi Rovati. Perché nel Museo Archeologico Nazionale di Atene, dov’è conservata, quella barba nessuno l’aveva mai potuta scorgere: nemmeno Emanuele Papi, direttore della Scuola Archeologica Italiana di Atene (Saia), che con i suoi colleghi la studia da lungo tempo. La ragione di tanto interesse non sta certo nel suo (modesto) valore estetico ma è racchiusa nelle due iscrizioni-rompicapo che corrono sul fronte e sullo spessore della pietra, entrambe scritte con l’alfabeto greco, nella variante detta «rossa», ma con parole assai simili a quelle etrusche.

Com’è possibile? Lemno si trova nell’Egeo settentrionale, di fronte allo stretto dei Dardanelli, a migliaia di chilometri dall’Etruria, e in un secolo di scavi non è emersa alcuna traccia di rapporti diretti tra queste genti e gli Etruschi. Eppure, Tucidide, Strabone e Plutarco chiamano «Tirreni» gli abitanti dell’isola. Come ha spiegato Emanuele Papi nella presentazione (con Salvatore Settis) della stele, l’ipotesi oggi più accreditata è che la lingua di Lemno appartenesse alla stessa famiglia prototirrenica (o tirsenica) da cui si sarebbero distaccati anche l’etrusco e il retico (parlato sulle Alpi omonime), portata da coloni tirrenici stanziatisi qui in tempi antichissimi, che presto troncarono i rapporti con la madrepatria. Ci avrebbero comunque pensato gli Ateniesi, conquistando Lemno nel V secolo a.C., a cancellare ogni traccia della civiltà locale, radendo al suolo tutto e praticando la sostituzione etnica.
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Ma degna di una spy story è anche la storia del ritrovamento della stele, rinvenuta presso il villaggio di Kaminia dal mecenate e archeofilo Ioannis Pantelidis (o da contadini che gliel’affidarono). Subito studiata da archeologi francesi, la stele era destinata alla Francia. Pantelidis, però, non era d’accordo e la sotterrò in un suo vasto terreno. Partì poi per Alessandria d’Egitto, dove morì senza rivelare il nascondiglio, e fu il figlio Odysseus a commissionarne la ricerca e, ritrovata, a farsela spedire nel 1900 ad Alessandria su un veliero greco. Il cui comandante, però, fiutato l’affare, la nascose a bordo e, all’arrivo, dichiarò di averla persa in mare.

Ancora una volta la stele fu ritrovata, per fare presto rotta però, verso Atene, volendo Pantelidis figlio donarla al Museo Archeologico Nazionale. Cui tuttora appartiene e da cui giunge a Milano. Dal 18 gennaio, nell’ipogeo della Fondazione Rovati si è poi aggiunta, esposta in anteprima (è stata trovata nel 2015, nel Mugello), la Stele di Vicchio, recante anch’essa una lunga iscrizione etrusca, mentre al piano nobile continua fino al 5 marzo l’esposizione del meraviglioso Lampadario etrusco di Cortona.

Ada Masoero, 28 febbraio 2023 | © Riproduzione riservata

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