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Elena Abbate
Leggi i suoi articoliL'arte come antidoto, mai come fuga dalla realtà: così la intende Paolo Crepet (Torino, 1951), psichiatra e scrittore. Come medico, ha vissuto al fianco di Franco Basaglia la stagione decisiva della riforma della sanità psichiatrica, quando la malattia mentale cessò di essere una «colpa» da espiare con la reclusione negli ospedali-lager di allora. Come saggista e come divulgatore si è più volte dedicato ai problemi dei giovani e della famiglia, ma anche alla qualità della vita, non solo psichica, nell’era del digitale. L’arte resta per lui una fedele compagna di strada.
Come nasce il suo rapporto con l’arte?
Penso di essere nato dentro l’arte. I miei nonni erano entrambi artisti, diplomati all’Accademia, uno a Venezia, l’altro a Urbino. Ho passato molto tempo della mia infanzia nelle loro case, mi hanno insegnato la curiosità, l’amore per la musica e la lezione fondamentale del colore. Il colore è una rappresentazione dell’anima e l’anima va rispettata, così come i colori vanno cercati. Ho subìto piacevolmente una sorta d’inquinamento sensoriale che mi ha accompagnato nella mia solitudine infantile. Mi piaceva costruire un mio mondo e l’arte era lo strumento per farlo.
Lei ha avuto come maestro Franco Basaglia...
Per me è stato un eroe rinascimentale, una sorta di gigante che lottava per le cose buone, con la capacità di trascinare la gente, di spiegare in maniera semplice cose complicate. È stato il mio secondo padre. Amava enormemente l’arte, quando eravamo stanchi delle nostre battaglie per chiudere i manicomi, andavamo in giro per il mondo a cercare qualche piccolo antiquario. Gli piaceva molto contrattare sul prezzo, ma alla fine non comprava quasi niente. Aveva curiosità per le cose più semplici e bizzarre, per il rapporto con la persona. Basaglia aveva necessità di documentare il mondo dei manicomi. Sapeva che le parole non avrebbero reso, e pensò alla fotografia. Chiamò i più grandi fotografi italiani a collaborare, da Berengo Gardin a Carla Cerati a Ugo Mulas. Dopo la morte di Basaglia, organizzai «Inventario di una psichiatria» una mostra nella quale furono esposti per la prima volta insieme tutti i fotografi del mondo che avevano fotografato la follia, da Richard Avedon a Diane Arbus. Vinse il premio della rivista americana di fotografia «Time Life» come mostra fotografica dell’anno.
Lei ha fatto anche il gallerista...
Nel 1976 facevo lo psichiatra all’ospedale di Arezzo. Il mio mestiere mi creava la necessità di controbilanciare l’orrore che vedevo negli ospedali psichiatrici. Ivan Bruschi, antiquario, mi regalò un fondaco, dei magazzini etruschi sotto la sua meravigliosa casa museo, davanti alla Pieve, che io trasformai in una galleria. Si chiamava il Fondaco dell’Arte, dove ho fatto mostre di Severini, Masson e Richter. Vi avevamo collocato un antico torchio per stampare incisioni.
Lei ha scritto che l’arte è la cosa più vicina alla psichiatria.
La malattia mentale è uno stato d’animo da guastare e lo psichiatra deve essere colui che rompe le catene della monotonia, del pessimismo, dell’incapacità a sognare. Credo che la pena più grande sia la vita non interrotta dalle passioni. L’unica possibile terapia antidepressiva è la ricerca della bellezza, non in senso estetico o funzionale, ma come rappresentazione della felicità. Ho conosciuto grandissimi artisti dentro i manicomi, ma ho sempre detestato la cosiddetta arte terapia. Il collezionismo è una sorta di malattia mentale perché è un’ossessione che si ripete. Non bisognerebbe mai selezionare troppo. Penso che l’amore per l’arte debba portarci, come nel museo immaginario di André Malraux, verso la commistione, l’intersezione. Il Cubismo non sarebbe mai nato senza una maschera africana fatta qualche migliaia di anni prima. L’idea che il mondo debba essere diviso in categorie per capirlo meglio ce lo fa comprendere meno.
La sofferenza mentale e l’arte sono limitrofe?
Sono due giardini divisi dal nulla, semplicemente tempi diversi di un’esistenza. Non c’è arte senza dolore, l’arte con il sorriso è insulsa. Se Van Gogh fosse vissuto all’epoca degli psicofarmaci non si sarebbe ammazzato, ma avrebbe lasciato le tele bianche. Che cosa sarebbe stato Francis Bacon senza un padre cattivo che non ne tollerava l’omosessualità o se non avesse avuto un compagno suicida? Oggi l’arte fa fatica perché c’è troppo benessere. Penso che sezionare una mucca non sia qualcosa di stupefacente. Mi pare più rivoluzionario danzare intorno alla tela come fece Pollock. Non credo lo facesse per appartenere alla collezione di un miliardario.
Un grande artista è uno psicolabile?
Essere psicolabili vuol dire essere sensibili. Il contrario è nauseabondo. Un uomo che non ondeggi con la sua anima non credo possa partorire nulla d’interessante. Ciò che ha reso Basquiat interessante era il suo dolore, che poi l’ha ucciso. Modigliani diceva che un artista deve essere strabico, avere un occhio interno e uno esterno. Questo conflitto è ciò che l’artista riproduce.
Questa inquietudine si paga?
Non si può pensare che sia pacificata dal mercato, dal denaro o dal successo. È molto difficile trovare un artista che continui a essere straordinariamente innovativo anche quando ha fatto i miliardi. Il mercato ci deve essere, gli artisti, i galleristi, i critici, gli editori devono guadagnare. Però bisogna anche essere coscienti di ciò che diventa contraddittorio. Come per i farmaci, c’è il bugiardino che ti dice quali sono gli effetti collaterali.
Quali sono?
Il successo è un effetto collaterale. L’immensità di Burri si è espressa al meglio quando è stato relegato in un campo di concentramento in America. L’idea del buco, di quella tela bruciata non poteva venire fuori dal boom economico. Se Rothko fosse andato in una clinica in Florida, gli avessero messo la camicia hawaiana, gli occhiali da sole e dato dei farmaci, forse avrebbe sorriso un po’ di più all’esistenza, ma avrebbe smesso di dipingere.
Non c’è mediazione possibile, l’arte è intrisa di dolore?
Il dolore non è necessariamente quello del Golgota, del lager di Primo Levi, o quello meno tremendo ma altrettanto orribile di Burri. Il talento è come la sensibilità, più ne hai e più sei a contatto con il dolore del mondo. E più sei a contatto con il dolore del mondo, più esplodi.
Che cosa consiglia ai tanti giovani che incontra?
Di studiare anche le biografie delle persone straordinarie, perché ci spiegano non solo ciò che hanno fatto, ma anche come funziona la vita. La vita non cambia perché abbiamo la macchina più bella o andiamo a trecento all’ora in treno. La vita è ciò che abbiamo dentro, che per fortuna non cambia cosi velocemente. Anzi, penso che abbiamo più o meno lo stesso animo di quelli che vivevano nelle caverne e mangiavano i cinghiali crudi. Se avessimo modernizzato anche l’animo umano, sarebbe stato molto triste. Ci saranno nuove forme di talento, ma è nostro compito dire ai ragazzi che l’arte ha bisogno anche di gesti antichi.
Che cosa manca oggi a un bambino?
Qualcuno che lo aiuti a crearsi un mondo. Ripartire dal gioco. Potersi esprimere liberissimamente con pastelli e matite. Recuperare la bella calligrafia, aiutarlo ad appropriarsi della sua manualità. L’inganno è la digitalizzazione al posto della creatività. La destrezza manuale si deposita in una parola magica: autostima, la coscienza del saper fare. Aver provato a fare una cosa ed esserci riuscito è una cosa meravigliosa, è la fabbrica dell’umano.
Stiamo dando importanza a cose non così importanti?
Non c’è dubbio. In tanti hanno detto che l’Accademia non serve a niente, poi però andavano in giro con il cavalletto a dipingere. Ma un’acquaforte non la inventi dal nulla, è una tecnica. Per fare una puntasecca ci vuole la mano. Da Venini a Murano sono rimasti una decina di operai, dopo di loro non ci sarà più ricambio. Tra vent’anni Venini sarà solo nei musei perché non ci sarà più nessuno in grado di fare un bicchiere, un vaso, nulla. È un mondo più ricco?
Non possiamo fare a meno dell’arte?
Non ho niente contro chi decide di comprarsi un cavallo con la testa dentro il muro, ma è tutto lì? Attenzione, l’arte non è spreco, spazzatura. Ai nostri pronipoti cosa lasciamo, la confezione con cui portiamo la pizza e poi buttiamo via? Il cammino dell’uomo occidentale è stato quello di una progressiva liberazione dal lavoro faticoso e ripetitivo, dalla catena di montaggio. La parte faticosa l’abbiamo abolita, la parte creativa si è arenata.
Che ne sarà dell’uomo?
Il mondo sarà popolato da mantenuti, vagabondi che non sapranno come ammazzare il tempo, senza arte né parte, certamente infelici e perversi. Credo che ci debba essere dentro noi la voglia di indicare una via diversa, una vita nuova, che includa tutte le meraviglie.
La tragedia del terremoto è un richiamo drammatico.
Non basta tirare su San Benedetto a Norcia, ma rispettare ciò che non è venuto giù. I ragazzi che si arrampicano sul campanile del borgo per salvarlo sono coraggiosi, amano il patrimonio che hanno ereditato. Il loro amore per arrampicarsi utilizzato per il cosiddetto restauro acrobatico è la strada maestra. Abbiamo bisogno di un’Italia di giovani che sappiano fare ciò che Renzo Piano ha definito un rammendo col nostro passato e il prolungamento col nostro futuro. Dobbiamo dire ai nostri figli: questo è il nostro patrimonio, svegliatevi perché non è imperituro ma fragile.

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