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Ancora una volta le tre alte finestre affacciate sul gran giardino di Palazzo Cicogna, nel cuore di Milano, dove Lucio Fontana aveva il suo studio e dove da anni si apre la Galleria Christian Stein, si fanno «complici» delle opere esposte, potenziando con la loro luce i valori cromatici, tattili e materici di cui Stefano Arienti arricchisce, ormai da lungo tempo, i suoi lavori. E ancora un volta l’artista (Asola, Mantova, 1961) che s’impose negli anni ’80 con le «Turbine» (sculture di carta fatte di volumi meticolosamente ripiegati), in questi suoi lavori pittorici, esposti dal 12 giugno al 27 settembre e commentati da Sergio Risaliti, si avvale di un processo di mise-en-abîme, come si sarebbe detto un tempo, di «messa in abisso», di sprofondamento nel tempo e nell’immagine, grazie a una connessione fra diversi piani temporali e visuali che mette in atto in ogni sua opera. Come spiegare in altro modo il processo che vede i lattei teli antipolvere di plastica usati nei cantieri, da lui prediletti per i suoi lavori monumentali, su cui ha abbozzato, a olio, i contorni dei dipinti mitologici realizzati da Tiziano e Giovanni Bellini per i «Camerini d’alabastro» di Alfonso I d’Este, diventare lo sfondo diafano (alabastrino, appunto) dei lavori, più piccoli, da lui creati fotografando dipinti impressionisti o post-impressionisti, stampandoli poi in formati alterati rispetto all’originale e ricoprendoli infine con spesse e coloratissime ditate di cera-pongo?
Dalle divinità classiche al Rinascimento estense, citato però servendosi di un supporto umile, irregolare, grinzoso come la plastica da ponteggi; dalla Francia dell’ultimo ’800, allusa dai paesaggi e dalle composizioni di Monet e Van Gogh, fino al nostro tempo, evocato da un materiale artificiale dai colori golosi e dagli usi giocosi come il pongo, in ogni suo lavoro Arienti crea davvero un abisso temporale e concettuale in cui le immagini del passato vengono da lui prese in prestito, riattivate e condotte dalla planarità della pittura alla tridimensionalità del bassorilievo.
Il pongo, come dichiarava l’artista in un’intervista di Riccardo Conti al tempo della mostra in Triennale «Pittura italiana oggi» (2023, a cura di Damiano Gullì) commentando il lavoro esposto allora, sostituisce per lui la pittura e il pennello: «la mia opera, diceva, consiste in una riproduzione fotografica (infedele per colori e dimensioni) di un’opera di Vincent Van Gogh. Su questa fotografia, che mi serve per stampare un oggetto contemporaneo, un manifesto, opportunamente montato su un supporto rigido, ho sovrapposto abbondanti ditate di cera per modellare l’immagine. Il colore del pongo sul manifesto riprende quello delle pennellate originali, e spesso è impastato direttamente in fase di applicazione. L’effetto materico della cera-pongo enfatizza la terza dimensione delle pennellate ingrandite dalla riproduzione fotografica. A prima vista è molto difficile distinguere il mio intervento dalla pittura riprodotta nella fotografia. L’effetto finale è quello di un dipinto molto materico, che enfatizza il colore, un restauro paradossale a metà strada fra parodia e omaggio».

Una veduta della mostra di Stefano Arienti da Christian Stein, Milano. Photo: Lilian Istrati