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Alberto Giacometti, «Le Chien», 1951, Hirshhorn Museum and Sculpture Garden, Smithsonian Institution, Washington, DC, Gift of Joseph H. Hirshhorn, 1966 © 2018 Alberto Giacometti Estate/Licensed by VAGA and ARS, New York

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Alberto Giacometti, «Le Chien», 1951, Hirshhorn Museum and Sculpture Garden, Smithsonian Institution, Washington, DC, Gift of Joseph H. Hirshhorn, 1966 © 2018 Alberto Giacometti Estate/Licensed by VAGA and ARS, New York

La spirale della solitudine

Alberto Giacometti al Guggenheim di New York

Guglielmo Gigliotti

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New York. Oltre duecento opere, tra sculture, dipinti e disegni, realizzati da Alberto Giacometti dagli esordi parigini (1926) alla morte (1966) sono in mostra fino al 12 settembre al Solomon R. Guggenheim Museum.

Le curatrici Megan Fontanella, del team del museo, e Catherine Grenier, direttrice della Fondazione Giacometti di Parigi, hanno inteso mettere a fuoco i temi fondamentali di quella ricerca che l’artista, nato nel piccolo paese svizzero di Borgonovo nel 1901, ha descritto come un «tentativo di afferrare qualcosa che sfugge». Sculture come «Donna cucchiaio» del 1927, «Palla sospesa» del ’30 e «Mani che reggono il vuoto (oggetto invisibile)» del ’34 rappresentano pienamente, tra altre dello stesso periodo, l’adesione al gruppo surrealista di André Breton, e quindi a una poetica ispirata al sogno, all’enigma intrinseco delle cose e alla sua trasposizione in simboli.

Il secondo dopoguerra si annuncia invece con filiformi figure maschili e femminili stanti o in cammino, allungate fino all’inverosimile e composte di grumi materici. Così pure la sequenza di busti-ritratto (l’amato fratello Diego su tutti, assistente per tutta la vita di Alberto Giacometti e oggi conteso protagonista del mercato del design), con teste piccole innestate su grandi toraci. È un ritorno a un naturalismo nel quale convergono memorie dell’arte africana, egizia ed etrusca.

Del ’47 sono «Uomo che marcia» e «Uomo che punta il dito», dell’anno successivo «Piazza cittadina», del ’50 «La foresta» (sette figure femminili e un busto assiepati su una piattaforma). «Donna di Venezia» è del 1956, mentre tra le ultime opere realizzate, c’è il «Busto di Lotario» del 1965.

Di rilievo nella mostra che si estende nelle rampe a spirale del museo, il ricco apparato di disegni e dipinti, soprattutto ritratti caratterizzati da segni rapidi e fitti, oltre che da un senso di allucinato isolamento spaziale e interiore solitudine, che Sartre individuava come caratteristica primaria dell’arte dell’amico Giacometti.

Blocchi di disegni degli ultimi anni di vita dimostrano come l’ormai celebratissimo artista non abbia mai smesso di esercitarsi e di guardarsi in giro: «Mi interessa l’arte, ma soprattutto la verità», disse in un’intervista riportata nel catalogo. E fotografie della sezione documentaria mostrano come tale ricerca sia avvenuta per quarant’ anni in uno studio situato a Montparnasse, in 30 metri quadrati di spazio. In mostra sono anche esposti i bozzetti di fine anni Cinquanta per un monumento in una piazza di New York: il tentativo però fallì perché Giacometti si sentì risucchiato dallo spazio troppo grande e vuoto.

Alberto Giacometti, «Le Chien», 1951, Hirshhorn Museum and Sculpture Garden, Smithsonian Institution, Washington, DC, Gift of Joseph H. Hirshhorn, 1966 © 2018 Alberto Giacometti Estate/Licensed by VAGA and ARS, New York

Guglielmo Gigliotti, 27 giugno 2018 | © Riproduzione riservata

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