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Anna Aglietta
Leggi i suoi articoliA Torino, Camera-Centro italiano per la fotografia inaugura la nuova stagione, ma soprattutto, il decimo anno di attività, con una retrospettiva dedicata a una delle fotografe più ambiziose e prolifiche del Novecento. Aperta al pubblico dal primo ottobre al primo febbraio 2026, «Lee Miller. Opere 1930-1955» offre una panoramica completa su una grande artista polivalente, che passò da una carriera come modella alla fotografia surrealista, da ritratti e scatti artistici al reportage di guerra, per terminare, infine, cuoca surrealista.
Prima dell’apertura al pubblico, abbiamo incontrato Walter Guadagnini, direttore artistico di Camera e curatore della mostra, per parlare di Miller e dei suoi exploit artistici. Ne abbiamo approfittato per fare il punto dei piani per celebrare l’anniversario di Camera e degli obiettivi per i prossimi dieci anni.
Da che cosa è nata la scelta di portare Lee Miller a Camera?
Ci sono due ragioni. La prima è personale: Miller è una fotografa che ho sempre amato moltissimo e che credo sia davvero uno dei personaggi più importanti della fotografia del XX secolo. La seconda ragione è istituzionale: questa mostra appartiene allo spirito di questo tempo e allo spirito di Camera. Ultimamente abbiamo lavorato molto proprio sulle figure femminili: anche se, da un lato, è sbagliato, secondo me, ragionare in termini di genere, dall’altro però è vero che molto spesso queste figure sono state sottovalutate. Quindi mettere sotto i riflettori, come abbiamo cercato di fare, figure quali Eve Arnold, Margaret Bourke-White o Miller ha un senso di revisione e riscrittura della storia.
Come rappresentare la carriera di una fotografa e artista così polivalente? Che criteri hanno guidato la selezione delle immagini?
La mostra espone circa 160 fotografie, che coprono tutta la carriera di Miller. Va sottolineato, è una carriera brevissima, che inizia con lei giovanissima e finisce con lei ancora giovane. Inoltre, è un fotografa che, in questi vent’anni, ha fatto di tutto: è passata dalla fotografia di ricerca, alla fotografia di reportage e di moda… E ha fatto tutto benissimo. La tesi di fondo della mostra è che qualsiasi cosa lei abbia affrontato, lo abbia fatto con questo sguardo costruito su un pensiero di matrice surrealista, che unisce tutto. Le sue fotografie di guerra, ad esempio, sono geniali e stranianti: è riuscita a offrire una prospettiva su un tema durissimo, senza risparmiarci niente, ma facendolo diventare qualcosa di diverso.
Il lavoro di Lee Miller è stato influenzato dagli artisti che frequentava, nomi quali Man Ray, Paul Éluard, Pablo Picasso, senza dimenticare il secondo marito, l’artista surrealista Roland Penrose. Come comunicarlo nella mostra?
Più che di influenze mi piace parlare di rapporti, perché non è chiaro chi influenzasse chi. In mostra c’è una sala intera dedicata a questo clima, a questa comunità che si ritrovava a Parigi negli anni Trenta. Con la scelta delle immagini, vogliamo far capire che era un gruppo unito, che si divertiva, anche se con il presagio della guerra, da quella civile in Spagna, già in corso, all’incombente Seconda guerra mondiale. Riprendiamo il tema anche nell’ultima sala. Dopo la guerra, Miller sostanzialmente smette di lavorare come fotografa professionista e si trasferisce in una tenuta nel Sussex. Lì ritroviamo ritratti di personaggi che non ci si aspetterebbe mai, che vanno a trovarla: Renato Guttuso, Alfred Barr, Saul Steinberg, Richard Hamilton, che ai tempi non era nessuno, giusto per menzionarne alcuni.

Lee Miller, «Miss Lee Miller (Acconciatura di Dimitry). Lee Miller. Studios, Inc., New York, Usa», 1932. © Lee Miller Archives, England 2025
Lei dirige Camera dal 2016 e da allora non ne cura spesso le mostre. Come mai la scelta di occuparsi della mostra di Miller?
Ormai ho molti impegni, che mi impediscono di fare il curatore come una volta e mi forzano a centellinare le occasioni di curatela, ma mi tengo spazio per le passioni, come appunto Miller.
Quest’anno Camera celebra il suo decimo anniversario. Come festeggiate?
Festeggiamo in buona salute. Abbiamo superato l’anno scorso 100mila visitatori annui e quest’anno dovrebbe ancora migliorare, quindi sicuramente taglieremo metaforicamente una torta e stapperemo le bollicine. Ma quello che conta di più è continuare il nostro lavoro, facendo il punto di quello che sono stati questi dieci anni, per Camera ma soprattutto per il mondo della fotografia. Perché Camera è anche questo: oltre alle mostre, riflettiamo e diamo occasione di riflettere e ascoltare sui grandi temi della fotografia e, attraverso essa, sul nostro rapporto con il mondo.
Parlando dei dieci anni appena trascorsi, com’è evoluta la missione di Camera? E che cosa avete imparato?
Sicuramente, quello che abbiamo imparato è stare sempre più attenti a quello che ci sta intorno. E quello che ci sta intorno non è solo la fotografia contemporanea, ma anche tutto quello che appartiene ai desideri del pubblico. Ad esempio, abbiamo accentuato, nella nostra proposta, il filone dedicato alle figure storiche, rivedendole con gli occhi di oggi. C’è poi quella che io chiamo l’attività quotidiana di Camera, meno visibile al pubblico, che consiste nel lavoro di diffusione della cultura fotografica, tramite la collaborazione con altri istituti e istituzioni in città e fuori città e gli incontri che ospitiamo regolarmente. Grazie a questo lavoro, siamo diventati un punto di riferimento all’interno della comunità, sia italiana che all’estero.
Perché è importante il lavoro che svolge Camera nel panorama artistico torinese e italiano?
Quando è nata Camera non c’era nessun luogo (e ancora ce ne sono troppo pochi) che si dedicasse alla fotografia per 365 giorni all’anno. Ci sono ovviamente tante mostre e tanti festival di fotografia, anche molto interessanti, ma sono solo momenti in cui la fotografia prende la scena in un luogo che non le è dedicato. Oggi a Torino ci sono anche le Gallerie d’Italia, interamente concentrate sulla fotografia, e penso che uno stimolo a questa apertura possa essere venuto anche dall’esperienza di Camera. Abbiamo dimostrato che lo spazio c’era e personalmente mi auguro la nascita di altre cento «case per la fotografia» in Italia.

Lee Miller, «5. Irmgard Seefried, cantante d’opera, mentre canta un’aria di Madama Butterfly. Opera House, Vienna, Austria», 1945. © Lee Miller Archives, England 2025