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Sophie Seydoux
Leggi i suoi articoliQuando nel 2008 la nuova Lewis Science Library aprì le sue porte nel cuore del campus di Princeton, molti la definirono subito un “animale raro” tra gli edifici universitari americani. Firmata da Frank Gehry, la biblioteca è un compendio delle sue intuizioni più celebrate: volumi spezzati, superfici metalliche lucenti, geometrie che sembrano piegarsi mentre le si osserva. Ma al di là della sua immagine iconica, l’edificio rappresenta una riflessione precisa sul ruolo dell’architettura nella produzione contemporanea del sapere scientifico.
La Lewis Library non è progettata come un contenitore di libri, ma come un organismo dinamico, capace di far incontrare matematici, fisici, biologi e informatici in un ambiente che stimola la serendipità. Gehry colloca al centro la grande “piazza interna”, un atrio luminoso attraversato da passerelle e da superfici vetrate, che funziona come snodo visivo e sociale. I ricercatori si incrociano, si osservano, si riconoscono: l’architettura diventa catalizzatore di idee. Le forme sinuose e i volumi disarticolati, spesso interpretati come gesti scultorei, qui rispondono a una logica programmatica: aprire, collegare, disorientare quel tanto che basta per stimolare un pensiero non lineare.
Gehry accetta e respinge al tempo stesso la tradizione del campus. La base dell’edificio è rivestita in mattoni color miele, chiaro omaggio al linguaggio storico della Ivy League; ma sopra di essa si innalzano le tipiche superfici d’acciaio ondulate e i rivestimenti in vetro che catturano la luce e frantumano la verticalità delle facciate. Il risultato è un equilibrio inatteso: la biblioteca si inserisce nel tessuto di Princeton senza mimetizzarsi del tutto, diventando un segnale di cambiamento e apertura verso la ricerca contemporanea. All’interno, Gehry adotta un approccio volutamente ibrido. I piani si articolano in zone di studio individuale, sale lettura luminose, aree di ricerca collettiva e spazi informali disseminati come “buchi d’aria” tra un dipartimento e l’altro. Lo scopo è costruire un ambiente accogliente e non intimidatorio, dove la scienza possa essere percepita come pratica quotidiana oltre che speculazione intellettuale. Le ampie superfici vetrate e la luce zenitale contribuiscono a modellare un’atmosfera costante di trasparenza. «Volevamo un edificio che ispirasse curiosità», ha dichiarato più volte Gehry. La biblioteca, infatti, si comporta come un laboratorio: non mostra la scienza finita, ma il suo processo.
Pur non essendo tra le sue architetture più celebri come il Guggenheim Bilbao o la Walt Disney Concert Hall, la Lewis Library rappresenta un momento significativo nella carriera di Gehry: un progetto in cui la sua estetica si mette al servizio di una funzione altamente complessa, senza rinunciare alla propria espressività. Qui la “decostruzione” non è un gesto radicale, ma una strategia operativa. L’architettura accoglie il caos del pensiero scientifico – fatto di ipotesi, errori, intuizioni – e lo traduce in spazi che non sono mai completamente prevedibili.
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