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Giuseppe M. Della Fina
Leggi i suoi articoliNella giornata dell’11 dicembre 1925 papa Pio XI istituiva, con un «Motu Proprio», il Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana in cui si sono formati centinaia di archeologi del cristianesimo antico provenienti da tutte le parti del mondo, che, rientrati successivamente nei Paesi di provenienza, hanno svolto incarichi legati alla conoscenza e alla tutela. A un secolo di distanza, per ricordare quella scelta, il Santo Padre Leone XIV ha appena pubblicato una Lettera Apostolica sull’importanza dell’archeologia.
L’interesse prevalente è per l’archeologia cristiana, come ci si può attendere, ma lo sguardo comprende tutti i rami della disciplina, di cui si riconosce una centralità nei nostri anni, in cui «l’uso e il consumo hanno presso il sopravvento sulla custodia e sul rispetto».
In tale contesto l’archeologia insegna invece che «la più piccola testimonianza merita attenzione, che ogni traccia ha un valore, che nulla può essere scartato. In questo senso, essa è una scuola di sostenibilità culturale e di ecologia spirituale».
Nella Lettera Apostolica si ricorda che la formazione di un archeologo costituisce «un’educazione al rispetto della materia, della memoria, della storia. L’archeologo non butta via, ma conserva. Non consuma, ma contempla. Non distrugge, ma decifra».
Vi è poi attenzione per lo sguardo dell’archeologo che «sa cogliere in un pezzo di ceramica, in una moneta corrosa, in un’incisione consunta il respiro di un’epoca, il senso di una fede, il silenzio di una preghiera». D’altronde l’archeologia «è una scienza della soglia, che sta tra la storia e la fede, tra la materia e lo Spirito, tra l’antico e l’eterno».
Quindi una riflessione sul significato profondo della disciplina, «che non ci parla solo di cose, ma di persone: delle loro case, delle loro tombe, delle loro chiese, delle loro preghiere». Una disciplina che non deve studiare «soltanto i reperti, ma anche le mani che li hanno forgiati, le menti che li hanno concepiti, i cuori che li hanno amati. Dietro ogni oggetto c’è una persona, un’anima, una comunità».
Un archeologo deve insomma sapere misurarsi (o, almeno, provare a farlo) con la vita di persone lontane nel tempo: delle loro scelte, dei loro desideri, delle loro difficoltà, della loro spinta a costruire, almeno nelle intenzioni, un mondo migliore sia a livello individuale che collettivo rispetto a quello in cui si erano trovate a vivere.
L’archeologia non deve essere una disciplina legata alla morte, anche se gli oggetti che studia provengono per una buona parte da tombe, secondo linee di ricerca che hanno privilegiato lo scavo di necropoli spesso per considerazioni molto materiali, ma alla vita. Questa a me appare la vera sfida per un archeologo: può accadere di sbagliare una datazione, non comprendere a fondo un inquadramento storico-artistico, non leggere un contesto, ma non si deve dimenticare che occorre cercare, per quanto possibile, di ridare la voce a uomini e donne di un passato più o meno remoto.
C’è nel documento pontificio una consapevolezza e un richiamo ulteriore: «Credere nella forza dello studio, della formazione, della memoria». In proposito si raccomanda di «non chiudersi in un sapere elitario, ma condividere, divulgare, coinvolgere».
Soffermandomi su quest’ultima osservazione mi è tornata alla mente un’affermazione ripetuta dal padre gesuita Alfred Pohl, insigne studioso del mondo assiro, a uno dei miei maestri, Sabatino Moscati: comunicare l’Antico è «un apostolato».
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