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L’Italia non ha voluto salvarsi da terremoti e calamità: ecco come, quando e perché

Politica, ideologia, burocrazia e miopia hanno cinicamente liquidato la possibilità di preservarci: le non scelte sono i responsabili effettivi dei morti e dei disastri che affliggono l’Italia. Eppure sapevamo. I piani non sono certo mancati

Bruno Zanardi

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Un mese dopo il novembre 1966 dell’alluvione di Firenze, uno dei vecchi governi di centro-sinistra, ancora composti da figure che la politica sapevano che cosa fosse e soprattutto a che cosa servisse, istituisce una «Commissione per lo studio della sistemazione idraulica e della difesa del suolo in Italia». La presiede l’ing. Giulio De Marchi, che così conclude i lavori nel 1970: «L’alluvione del 1966 ha posto in assoluta evidenza la necessità e l’urgenza di affrontare il problema della difesa idraulica e del suolo contro gli eventi idrogeologici in un quadro più vasto, nel quale tutti i molteplici aspetti di esso fossero convenientemente considerati». 

Il 29 giugno 1973 viene presentata a Urbino la «Prima relazione nazionale sull’ambiente». Ideata, finanziata e coordinata da uno degli importanti gruppi industriali italiani nel mondo, l’Eni, alla sua realizzazione partecipano centri di ricerca, laboratori scientifici di grandi industrie, istituti, università, organizzazioni, enti, insomma il meglio del pensiero scientifico italiano e internazionale, compresi la Fao, l’Onu e la Nasa. Uno dei gruppi di lavoro è dedicato alla tutela del patrimonio artistico. È la prima volta che si mettono in rapporto patrimonio artistico e ambiente, chiarendo che dal secondo viene ogni possibile danno al primo. Ideatore e coordinatore di questa sezione è Giovanni Urbani. 

La «Prima relazione sull’ambiente» resta anche l’ultima. A farla fallire in partenza è l’ideologica e demagogica (ma anche un poco casareccia) opposizione dell’allora Partito comunista (Pci), che chiama a Urbino per stroncarla con certezza uno dei propri vertici: Giovanni Berlinguer. La vicenda è raccontata anni dopo in un libro da un testimone diretto, Marcello Colitti, allora alto dirigente dell’Eni:  «Si disse che erano bastati i dieci minuti dell’intervento di Giovanni Berlinguer all’inaugurazione di quella Prima relazione per fare naufragare tutto. Cioè per segnare l’atto di morte del tentativo dell’Eni di conquistare un ruolo istituzionale nel settore dell’ecologia. Un grande lavoro e un’équipe di qualità risultarono sprecati. La relazione sui problemi ambientali e ecologici nel Paese non fu più rifatta e la Tecneco, la società che era stata appositamente creata entro l’ambito Snam Progetti e della quale Franco Briatico doveva dopo qualche tempo diventare presidente, fallì prima di nascere. Da allora, al discorso ecologico italiano è mancato per molti anni un elemento fondamentale: un centro di rilevazione e di elaborazione che avesse i mezzi per operare e la capacità tecnica e imprenditoriale, oltre alla credibilità verso il pubblico». 

Così riporta «l’Unità» (30 giugno 1973) l’intervento statalista fatto a Urbino da Giovanni Berlinguer contro la «Prima relazione»: «La funzione della impresa pubblica [l’Eni] non può essere dunque quella che si è configurata nella “Prima relazione”: se essa vuole sostituirsi alle Regioni e ai Comuni nel delineare l’assetto del territorio o nel gestire i beni indivisibili della collettività come il suolo e le acque, se l’impresa pubblica vuole “diventare agenzia ambientale dello Stato”, essa incontrerà dalle forze politiche e culturali dai poteri regionali, dall’interno stesso dell’amministrazione pubblica una insormontabile opposizione».

La posizione del Pci era non solo lontana dalla realtà dei problemi ma lesiva dell’interesse nazionale per le ragioni appena dette da Colitti. Non basta a salvarla la sua storicizzazione al 1973: la lunga marcia del Pci per raggiungere il potere in Italia vedeva una tappa fondamentale nell’istituzione avvenuta  tre anni prima, nel 1970, delle Regioni, però  attive a pieno regime solo da un anno, cioè da quando era stata trasferita loro la materia in urbanistica e lavori pubblici (Dpr 8/72). I fallimentari risultati ottenuti da Regioni ed Enti locali nella gestione dello sviluppo urbanistico e del controllo dell’ambiente nel mezzo secolo che separa il 1972 dall’oggi, sono sotto gli occhi di tutti. 

Il terzo tentativo è del 1976. Dopo molte peripezie (il Piano è pronto dal 1974), l’Istituto centrale del restauro (Icr), allora diretto da Giovanni Urbani, presenta il «Piano pilota per la conservazione programmata dei beni culturali in Umbria». Un lavoro di ricerca durato anni in collaborazione con la Tecneco, la società dell’Eni di cui si è appena detto, poi con il Cnr, alcuni centri di ricerca industriali e un certo numero di Università italiane e straniere. Il Piano pone al centro del problema conservativo il rapporto tra patrimonio artistico e ambiente e introduce per la prima volta nella tutela il tema del rischio ambientale: sismico, idrogeologico, da inquinamento, sociologico ecc. Quel Piano, prima ancora che uno strumento di salvaguardia del patrimonio artistico, è un dispositivo di pianificazione territoriale definito con ogni precisione.

E qui bisogna aprire un inciso. Nel 1974 viene istituito il Ministero dei Beni culturali. A volerlo fortemente è il giornalista fiorentino Giovanni Spadolini, datosi alla politica dopo essere stato licenziato dalla direzione del «Corriere della Sera». Urbani preme su di lui, chiarendogli che questa potrebbe essere l’occasione per fare del Ministero il fulcro di una grande progetto internazionale per la salvaguardia del mondo storico, ponendo quell’azione di tutela in rapporto al tema dell’ambiente e del territorio. Un progetto con l’Italia capofila, a cui l’Icr si stava preparando da anni e per il quale già aveva prodotto importanti documenti, ad esempio il lavoro di ricerca reso noto nel volume del 1973 Problemi di conservazione. La risposta fu nel suo primo atto di governo. Il 1° marzo 1975, 30 giorni dopo il suo insediamento al Ministero il 29 gennaio 1975 (l. 5), il fiorentino Spadolini promuove a Istituto centrale del restauro lo storico e ormai obsoleto Opificio delle Pietre Dure di Firenze (l. 44/75). Un decisivo atto di guerra contro il grande lavoro di ricerca intrapreso dall’Icr di Urbani, che ne decreta perciò stesso la morte, e per il quale valgono (non a caso) le stesse identiche parole usate da Marcello Colitti a  commento del voluto fallimento, due anni prima, della prima relazione nazionale sull’ambiente: «Dalla provocata morte dell’Icr, al discorso italiano sulla tutela è mancato (e continua ancora oggi a mancare) un elemento fondamentale: un centro di rilevazione e di elaborazione che avesse i mezzi per operare e la capacità tecnica e imprenditoriale, oltre alla credibilità verso il pubblico». 

Mario Pedini, secondo ministro dei Beni culturali dopo Spadolini, prova tuttavia a far suo il «Piano pilota» e lo presenta il 12 maggio 1976 a Roma. Ne consegna copia all’assessore alla cultura della Regione Umbria, chiedendogli che sia la Regione stessa a esprimersi nel merito, visto che senza il suo assenso il «Piano» diverrebbe irrealizzabile. La Regione apre un dibattito che evidenzia l’immenso ritardo culturale del Paese nella capacità d’affrontare i problemi della conservazione del patrimonio artistico nel durissimo corpo a corpo con la materia e non più sul piano ideale dell’estetica e della critica, quando non della forzatura ideologica e demagogica. Da qui la compatta repulsa del «Piano» di Urbani da parte di Regioni, soprintendenti, professori, associazioni di settore, sindacati e quant’altri, tutti incapaci di orientarsi dentro una così radicale innovazione culturale del settore, indisponibili ad accettarla. Copie conformi dell’intervento di Giovanni Berlinguer a Urbino. Un articolo scritto sull’«Unità» (22 settembre 1976) da Mario Torelli, ordinario di etruscologia a Perugia, sancisce la morte del «Piano» umbro: «Il progetto [il Piano pilota], che si è rivelato nei due volumi ciclostilati che lo compongono [in realtà quattro volumi a stampa, di cui uno cartografico, antesignano dei Gis] di bassissimo livello culturale e largamente disinformato, è un preciso attentato alle proposte avanzate dalle forze di sinistra, e in particolare dal nostro partito [Comunista italiano], per una più democratica gestione dei beni culturali (...). In sostanza si affida a forze tecnocratiche [la Tecneco] – sia pur connesse con il capitale pubblico [l’Eni] – la gestione della tutela: l’operazione rappresenta una manovra grossolana, priva di qualunque fondatezza culturale, per consegnare intere fette dello spazio operativo pubblico a gruppi privati nel nome di una rozza ideologia manageriale».

L’ultimo tentativo lo fa ancora l’Icr di Urbani. Nel 1983, dopo quasi tre anni dal terribile evento sismico che aveva fatto in Irpinia oltre duemila morti, Urbani presenta il «Piano per la protezione del patrimonio monumentale dai terremoti». In quel Piano si indicavano anche le tecniche, che riprendevano le tecniche tradizionali di consolidamento usate su monumenti rimasti nei secoli sempre in piedi. Urbani sottolinea inoltre l’opportunità di ridurre al minimo indispensabile gli interventi in palese contrasto con la logica delle strutture originarie, perciò sempre potenzialmente lesivi, chiaro riferimento all’uso troppo spesso sconsiderato del cemento come consolidamento.

Urbani aveva pensato il «Piano» come una mostra didattica per le soprintendenze, chiedendo che promuovessero nel loro territorio dibattiti, chiamando le Università locali, i responsabili ambientali della Regione, i direttori degli Uffici tecnici dei Comuni, gli Ordini professionali di ingegneri, architetti, geologi e così via. 

Solo due delle 65 soprintendenze allora attive in Italia (più una settantina di Archivi di Stato) richiesero la mostra. Una sostanziale incompetenza all’azione di tutela loro assegnata dallo Stato. Devo a Massimo Ferretti un aneddoto. Quando in quello stesso 1983 una giovane ispettrice andò dal suo soprintendente per dirgli dell’importanza della mostra e quindi di richiederne l’invio dall’Icr, la risposta del soprintendente fu di toccarsi le palle, fare le corna e, urlando formule scaramantiche, buttarla fuori dall’ufficio. Quel soprintendente era stato, come Torelli, per decenni membro del Consiglio Superiore dei Beni culturali ed è oggi tra i grandi sostenitori dell’articolo 9 della Carta, alla quale tutti riconoscono l’altissima forza morale, civile e culturale, ma alla quale mai si fanno seguire azioni tecniche.

L’ultima possibilità fu la «Giornata in memoria di Giovanni Urbani», organizzata da Salvatore Settis alla Normale di Pisa nel 2004. D’assoluta evidenza in quell’occasione l’insuperabilità dell’approccio alla tutela ideato da Urbani, non solo per la conservazione del patrimonio artistico, ma dell’ambiente. L’allora ministro Giuliano Urbani (nessuna parentela con Giovanni), se ne rese conto e dichiarò che avrebbe istituito una Direzione generale per la Conservazione programmata. Rimangiandosi però la pubblica parola il liberale (all’italiana) Giuliano Urbani, piegandosi alla sollevazione dell’alta burocrazia ministeriale al solito contraria (ancora oggi) a qualsiasi innovazione del settore nella direzione della competenza e del merito. Quei «Piani» avrebbero potuto, se non evitare, certamente molto alleggerire danni di miliardi e molte perdite di vite umane.

Bruno Zanardi, 10 marzo 2017 | © Riproduzione riservata

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