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Davide Landoni
Leggi i suoi articoliJohn Armleder ha segnato la storia dell’arte con una pratica che trae ispirazione dal movimento Fluxus e da John Cage, sfidando le convenzioni tra arte e oggetto quotidiano, tra spazio espositivo e ambiente domestico. La sua carriera, che lo ha visto protagonista nei più prestigiosi musei del mondo - dal MoMA di New York al Centre Pompidou di Parigi - si arricchisce oggi di una nuova collaborazione con illycaffè che riflette la sua visione libera, ironica e profondamente concettuale. «Io sono un artista che si presenta con cose nuove o nuove forme, o nuove strategie per la produzione del lavoro», ha dichiarato Armleder. Ed è proprio con questo spirito che firma una collezione unica, intitolata «Tastes», capace di trasformare l’iconica tazzina disegnata per illycaffè da Matteo Thun nel 1991, in un elemento di riflessione estetica e culturale.
Pittura, scultura, design, performance e installazione. Quali aspetti della tua arte uniscono le varie pratiche che hai sperimentato?
In realtà tutti. Non ho mai avuto restrizioni sul medium con cui lavoravo. Ho lavorato con oggetti multipli, di ogni tipo; dalla pittura alle pitture combinate con mobili, con oggetti di design, e lo faccio ormai da moltissimi anni.
Che sfida ha rappresentato per te lavorare sulla tazzina illy?
Credo che sia stata più una sfida per le persone che hanno lavorato con me, per trovare una soluzione. Abbiamo parlato di usare colori iridescenti, che utilizzo in molti dei miei quadri, insieme a glitter e altri elementi simili. Abbiamo cercato di capire come trasferire questo sulla porcellana delle tazzine, valutando diverse soluzioni. Doveva anche essere atossico, perché i colori metallici possono essere un problema. Quindi è stata una sfida più per il produttore che per me. L’idea era avere un set di tazze con colori iridescenti diversi, e penso che ci siano riusciti molto bene.
Pensi che il progetto possa rientrare nell’analisi del rapporto tra oggetti funzionali e arte? E se sì, in che modo? Penso, tornando indietro, al ready-made, ma anche alla pop art e a molta arte contemporanea.
Ho sempre pensato che l’arte, in un modo o nell’altro, dovesse essere usata. Anche un semplice quadro su una parete: lo guardi, ma anche la persona accanto a te lo guarda in un altro modo. Ci sono tante funzioni che entrano in gioco. Un quadro è sempre un po’ uno specchio, e cambia nel tempo: la sua comprensione oggi, ieri o domani sarà diversa. Le tazzine sono un po’ differenti, perché le usi soprattutto come tazzine. Certo, possono diventare un piccolo oggetto da esporre, ma restano oggetti funzionali, legati al gesto del bere, in questo caso il caffè.

Come ritroviamo qui, nella collezione delle tazzine, le tue celebri disco ball?
La disco ball è interessante perché è una sfera, ma allo stesso tempo è come un cristallo sfaccettato, che riflette la luce intorno, su chi la guarda. Ed è ciò che succede a tutto, ma in modo più sottile. Quando cammini in una foresta, diventi l’albero; quando sei in discoteca, diventi la sfera da discoteca.
E per quanto riguarda il titolo della collezione, «Tastes» A cosa si riferisce?
È il nome. È semplicemente il nome della collezione. Dice quello che dice. I titoli, nel mio caso, sono un po’ come un collage: li trovo accanto a ciò che sto facendo. A volte sembrano ovvi, a volte no. È una questione di tempismo. Non voglio dare titoli che restringano il significato di ciò che faccio, nelle mie pitture o altrove. Per anni, infatti, non ho usato alcun titolo. Ma poi diventa complicato, perché la gente mi chiedeva di riferirsi a questo o a quello, e senza titoli era impossibile. Così ho iniziato a usare parole che mi capitava di leggere su un giornale, una rivista, un libro, o che qualcuno mi diceva. Non voglio che un titolo limiti il significato di un’opera.


Queste opere possono in qualche modo rappresentare lo scorrere del tempo?
Credo che tutto lo faccia. Qualcuno, ad esempio, potrebbe dire: «Mi ricordo di aver visto quella persona bere il caffè in questa tazzina». Può accadere. Il tempo è quello del momento in cui guardi qualcosa. Se guardi un dipinto del Rinascimento, lo vedi con gli occhi di oggi, in un mondo completamente diverso. All’epoca c’erano molte meno persone, non c’erano gallerie né musei: l’arte occidentale si trovava solo in chiesa o nelle case dei principi. Oggi, invece, la guardi in un museo, che non era il luogo per cui era stata pensata, e l’esperienza cambia. E continuerà a cambiare.
Per concludere, c’è qualcosa che vuoi aggiungere sui tuoi progetti futuri? Qualcosa a cui stai lavorando?
Lavoro sempre a molte cose contemporaneamente. Due progetti in particolare: uno, più piccolo, con il Mamco di Ginevra, che è in fase di restauro. Ma c’è uno spazio dove esporrò tutti i miei cosiddetti sottoprodotti, cose che ho fatto con altre persone – dalle calze alle lattine, a qualsiasi altra cosa – sarà una mostra/negozio. Poi, a gennaio 2026, curerò la carte blanche del Museo d’Arte e Storia di Ginevra, presentando la loro collezione a modo mio. Avrò anche una personale all’Art Center di Bienne, in Svizzera, a giugno 2026, e al Wooyang Museum in Corea del Sud per la loro riapertura nell’autunno 2026.
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