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Luana De Micco
Leggi i suoi articoliÈ il «manifesto» della Rivoluzione, un corpo accasciato in una vasca da bagno, la ferita aperta, il coltello insanguinato abbandonato a terra e la penna che scivola dalle dita: «La morte di Marat», l’originale dipinto nel 1793 da David su commissione della Convenzione, lascia eccezionalmente i Musées royaux des Beaux-Arts di Bruxelles per la retrospettiva del Louvre, «Jacques-Louis David», presentata dal 15 ottobre al 26 gennaio 2026 nella Hall Napoléon. Il museo parigino, che conserva il più ampio nucleo di opere del maestro francese (1748-1825), accoglie anche un centinaio di prestiti da istituzioni francesi e internazionali, tra cui il grande frammento del «Giuramento della Pallacorda», opera incompleta, conservato a Versailles, «Amore e Psiche» del Cleveland Museum of Art, dipinto negli anni dell’esilio a Bruxelles, e la «Morte di Socrate» del Metropolitan di New York. Basandosi sugli studi condotti negli ultimi trent’anni (mentre l’ultima monografica francese su David risale al 1989), il museo intende rileggere l’opera del pittore e politico, «padre della scuola francese» e protagonista della Rivoluzione e dell’Impero, superando la stretta etichetta di «neoclassico» con cui viene spesso identificato.
Lo spiega Sébastien Allard, direttore del dipartimento delle Pitture del Louvre, che ha curato la mostra, insieme al conservatore Côme Fabre. «Il rifiuto del termine “Neoclassicismo” che, come un paraocchi, ha contribuito a disincarnare David e la sua pittura, è la prima chiave di lettura essenziale della mostra. Per ridare senso all’approccio creativo di David, preferisco parlare di «scelta classica»: non si trattava per lui di ritornare al Classicismo del XVII secolo, ma di adottare il linguaggio antico per ordinare il reale e parlare con forza alla propria epoca. Quando ci si libera da questo vincolo semantico e teorico, l’opera di David rivela due aspetti essenziali. Innanzitutto, la sua è una pittura militante: David concepisce la pittura come strumento di azione nella società, sollevando la questione dell’arte come motore per cambiare il mondo. In secondo luogo, e questo è cruciale, la mostra ricorda che David è innanzitutto un pittore. Lontano dall’immagine levigata suggerita ancora una volta dall’etichetta neoclassica, emerge un artista nervoso e potente, e i restauri realizzati per la mostra (tra gli altri, “L’Autoritratto”, “Il compianto di Andromaca” e i ritratti di Juliette Récamier e di Madame d’Orvilliers al Louvre, e “La morte del giovane Barra” ad Avignone) lo dimostrano perfettamente. Questi interventi hanno rivelato una materia pittorica vibrante, una tavolozza ricca e audace. Le pennellate vigorose sono particolarmente evidenti negli sfondi dei ritratti, l’energia vitale dell’artista esplode nell’“Autoritratto”. E questo ci riporta al primo punto: per David, la chiave della pittura è il suo impatto sullo spettatore. Un ulteriore elemento che possiamo aggiungere: la mostra, e il suo catalogo, mettono in luce, per la prima volta, l’influenza di Caravaggio e del caravaggismo sull’arte di David, per quanto sorprendente possa sembrare. In effetti, la questione del realismo lo ossessiona lungo tutta la sua carriera e, in ogni momento di crisi, David torna a nutrirsi della lezione caravaggesca. Compie due soggiorni a Roma: il primo si svolge sotto l’egida vincolante dell’Accademia di Francia, ma nel secondo il suo sguardo è libero di posarsi su ciò che vuole. È in questo contesto che nasce “Il Giuramento degli Orazi”, dipinto rivoluzionario e radicale, esposto dapprima a Roma, davanti all’élite europea, permettendo a David di guadagnare una reputazione internazionale che lo libera dal giudizio dell’Accademia».

Jacques-Louis David, «La Morte di Socrate», 1787. © New York, The Metropolitan Museum of Art
Questo nuovo ritratto, complesso e umano dell’artista, parla di più al pubblico contemporaneo?
L’intento è di non fermarsi alla statua del «commandeur» immobile sul suo piedistallo. David è un uomo e un artista molto determinato: questa è una delle caratteristiche più marcate della sua personalità, ma la forza del suo impegno artistico e politico si è costruita sui dubbi e i ripensamenti continui. Più volte è caduto dal piedistallo, ha attraversato crisi profonde, e ogni volta si è rialzato, reinventandosi, sostenuto da una volontà incrollabile. La mostra vuole ricordare, contro una lunga tradizione storiografica, che in David è impossibile separare l’uomo e l’artista senza impoverire entrambi. Questo ci permette di ridare unità alla sua vita e alla sua opera, troppo a lungo percepite come frammentate al ritmo dei rivolgimenti politici, cui egli partecipò in prima persona (l’Ancien Régime, la Rivoluzione, il Direttorio, il Consolato, l’Impero, la Restaurazione). Non va dimenticato che, tra il 1792 e il 1794, David non è soltanto artista: è anche uomo politico con ruoli di rilievo e organizzatore delle grandi cerimonie rivoluzionarie, dalle feste ai funerali.
La mostra pone David al crocevia tra arte, storia e politica. In che modo il suo percorso partecipa alle riflessioni contemporanee sull’impegno sociale dell’arte?
«Quale linguaggio devono usare gli artisti per parlare al proprio tempo?»: questa è la domanda che accompagna David per tutta la vita. Convinto che la pittura debba agire sulla società e che l’artista abbia un ruolo nella storia, propone risposte valide per il suo tempo, ma i quesiti che solleva sono ancora i nostri: che cosa significa essere cittadini? Che cosa vuol dire impegnarsi in una società in piena mutazione? David esplora in modo inedito il rapporto tra pittura e immagine come strumenti politici. È forse il primo «comunicatore» in senso moderno: «La morte di Marat» è l’immagine stessa della Rivoluzione.
La mostra sottolinea sia il ruolo del suo atelier, con allievi come Girodet o Ingres, sia l’importanza delle figure femminili nella sua opera, dalle Sabine ai grandi ritratti. In che modo queste due dimensioni, la trasmissione e lo sguardo sul femminile, rinnovano la nostra percezione del pittore e del suo tempo?
Per quanto riguarda l’atelier che, insieme a quello di Rubens, è il più grande della storia della pittura, è interessante osservare come fin dagli esordi si sviluppi un fenomeno di emulazione, non solo tra gli allievi ma anche tra maestro e allievi, che ben presto diventa competizione e rivalità. Nessuno dei suoi migliori seguaci lo ha seguito alla lettera; persino Ingres arriverà a opporsi frontalmente al maestro. Questo dialogo con i suoi allievi è uno dei motori che spinge David a mettersi in discussione e a rinnovarsi costantemente. Il ruolo delle donne nell’opera di David è stato spesso ridotto in modo caricaturale al pianto del «Giuramento degli Orazi». In realtà, un filo lega gli Orazi alle Sabine: in quest’ultimo dipinto, sono loro le protagoniste attive. Le donne incarnano la dimensione umana: la moglie di Bruto soffre, ma resta in piedi, interroga lo spettatore: «Un uomo che sacrifica i figli può essere un cittadino virtuoso?». Le Sabine sono le artefici della riconciliazione. In David, la sofferenza dignitosa delle donne ci fa prendere coscienza del prezzo dell’eroismo e del fatto che la gloria non consola. E se pensiamo a «L’incoronazione di Napoleone» (Le Sacre de Napoléon) occorre ricordare che David ha scelto di dipingere il momento dell’incoronazione di Giuseppina: è lei, non Napoleone, al centro della tela.

Jacques-Louis David, «Le Sabine», 1794. © Grand Palais Rmn (musee_du_Louvre) - Mathieu Rabeau, Sylvie Chan-Liat Piccola