Stefano Causa
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«Ombre di facce, facce di marinai/da dove venite, dov’è che andate (Umbre de muri, muri de mainé/dunde ne vegnì, duve l’è ch’ané)». Per festeggiare il quarantennale di «Crêuza de mä» (approssimativamente «mulattiera di mare» in genovese), uscito nel 1984, gli appassionati di Fabrizio De André, scomparso nel 1999, e di Mauro Pagani, lombardo, classe 1946 avranno provato a rifare il pezzo omonimo. Chitarra e voce: ci si può riuscire senza arrossire e tirar fuori lo strumentario originale tra cornamuse, bouzouki, mandolini e viole a plettro (per cominciare).
Ma questo a beneficio degli aficionados di De André: perché, nonostante sia uno dei monumenti della cultura italiana moderna e mai sia caduto dalla stima di critici di professione e musicisti, la «Mulattiera», con quell’incipit che incrocia Leopardi e il Montale degli Ossi, non avrebbe potuto aspirare a divenire realmente popolare; mainstream insomma. Né il canone di Fabrizio De André, misurato su Leonard Cohen e Georges Brassens, iniettato di bocche di rose, giudici, via del Campo, guerre di Piero, pescatori e Marinella, potrebbe tollerare l’inclusione di sette canzoni, tre sul lato A, in ligure stretto. E De André e Pagani erano i primi a saperlo.
Il dialetto è un’arma a doppio taglio. Perfetto nel controluce, duttile nelle sue tronche, sottolinea nella vita, nel parlato e nella musica, scatti e scarti impensabili in una lingua ordinata. A tradurle, le liriche di «Crêuza», come, tanto per dire, le canzoni napoletane classiche, si prosciugano come un rivo strozzato. Vale per la nostra «Mulattiera» quando, tra le altre cose, si accende l’attenzione sulle cose da bere e da mangiare: «Frittua de pigneu giancu de Purtufin/Cervelle de bae ‘nt’u meximu vin/Lasagne da fiddià ai quattru tucchi/Paciugu in aegruduse de levre de cuppi. (Frittura di pesciolini, vino bianco di Portofino/cervello di bue cotto nello stesso vino/lasagne in teglie da fare in quattro/pasticcio agrodolce di lepre di coppi)». Non so se questa elencazione possa fornire qualche spunto agli specialisti di natura morta ligure di età barocca. Ma so che voltato in italiano, qui si perde tutto e anche di più; doppi sensi compresi. E quelle lepri, come avvertirà a un certo punto De André stesso, sono «gatti in salmì spacciati per conigli selvatici».
Insomma: gran cosa ’sto disco, che bisogna meritarsi e per il quale un aggettivo giusto, sempre che uno solo possa bastare per tanta grazia è quello, abusatissimo, di «mediterraneo». Qui però non c’entrano World Music, contaminazione e altre scappatoie lessicali. Qui siamo proprio nel Breviario mediterraneo (1987) di Predrag Matvejević o nella civiltà del Mediterraneo di Fernand Braudel: dalla parte, però, non di Filippo II, ma dei sudditi.
A Genova del resto, come in ogni porto di mare, cultura è sinonimo di apertura. Perciò il miglior codice d’ingresso a questo capolavoro a quattro mani rimane la cover del fotografo Jay Maisel, classe 1931, tra le più sfacciatamente belle della discografia italiana di fine secolo. Maisel sta lavorando su di un’opera campione del tedesco americanizzato Josef Albers, con cui aveva studiato a Brooklyn: «Homage to the Square» del 1959. Una data che ha senso per la storia di entrambi se, nel 1959, Maisel realizzava la copertina di uno dei crocicchi inevitabili della civiltà afroamericana moderna: «Kind of Blue» del quintetto di Miles Davis.
Certo: c’è blu e blu. E qui, tra i marinai che tornano a casa, si agogna a un azzurro pieno e pacificante. Con un uso di luci e spazi che avrebbe potuto interessare chi, come Luigi Ghirri, negli stessi anni batteva sentieri (mulattiere) non troppo diverse. Se l’immagine di «Crêuza», a rigore, è dal Portogallo il bianco e lo strappo di cielo a destra sono generosamente mediterranei e si imprimono di un sentimento del colore e della luce, come una promessa di felicità, su cui hanno lavorato in tanti: da Pablo Picasso a De André fino a Gabriele Salvatores. Solo una feritoia interrompe la facciata della casa aprendosi per accogliere lo spettatore (l’ascoltatore) e dare inizio al racconto. O potremmo dire oggi, ma come i creatori di «Crêuza» avrebbero allora intuito perfettamente, una «finestra di dialogo».
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