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José Yalenti, «Paralelas e Diagonais», 1950 ca

Banco Itaú Collection. Courtesy of the Yalenti family

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José Yalenti, «Paralelas e Diagonais», 1950 ca

Banco Itaú Collection. Courtesy of the Yalenti family

Il corpo mutevole dell’architettura s’incontra con la fotografia ad Arles

Il Modernismo concretista e visionario brasiliano, un controverso Le Corbusier e l’inquietante collage abitabile di Batia Suter sono protagonisti ai Rencontres de la Photographie

C’è qualcosa di eroico nell’idea di mettere l’architettura al centro di un festival di fotografia. Come se all’improvviso, tra reportage politici, ritratti esistenziali e nature morte d’autore, ci si accorgesse che anche i muri parlano. E che anzi, a ben vedere, parlano di noi più di quanto vorremmo ammettere. È quello che succede quest’anno dal 7 luglio fino al 5 ottobre a Les Rencontres de la Photographie d’Arles, la manifestazione che da oltre cinquant’anni trasforma la città provenzale in una specie di laboratorio a cielo aperto per le immagini contemporanee, dove la sezione «Géométrie Variable» si prende la scena raccontando, in tre mostre, il corpo mutevole dell’architettura attraverso la lente della fotografia: monumento, rovina, collage mentale, carne viva.

Tutto parte da un club fotografico di San Paolo del Brasile, attivo fra la fine degli anni Trenta e i primi Sessanta. Nome: Foto Cine Clube Bandeirante. Etichetta: dilettanti. Ma bastano pochi minuti dentro «Construction, déconstruction, reconstruction», allestita negli spazi della Mécanique Générale e presentata nell’ambito della Saison Brésil-France 2025, per capire che qui si gioca una partita ben più alta. Curata da Helouise Costa e Marcella Legrand Marer, la mostra racconta come un gruppo di appassionati con una predilezione per le sperimentazioni tecniche abbia finito per riscrivere la grammatica della fotografia moderna in Brasile, accendendo un’onda lunga che avrebbe toccato la Bossa Nova, il Cinema Novo e l’arte neoconcreta. Ci sono fotogrammi, solarizzazioni, montaggi stranianti, manipolazioni dirette dei negativi: tutto concorre a rendere l’architettura, e soprattutto quella urbana, quotidiana, in trasformazione, una materia viva da decostruire e ricomporre. È un nuovo modo di guardare la città, attraverso la lente dell’astrazione e del frammento. I nomi sono quelli di un canone in attesa di venire riscoperto: Geraldo de Barros, German Lorca, Thomaz Farkas, José Oiticica Filho, Marcel Giró e Gertrudes Altschul. Accanto a loro, in un dialogo transdisciplinare che oggi suona finalmente naturale, le visioni di Lygia Pape e Hélio Oiticica, figure chiave del Neoconcretismo brasiliano. Non è solo una mostra fotografica: è una lezione visiva di utopia modernista, con tutte le sue tensioni, i suoi sogni di progresso e le sue inevitabili contraddizioni.

Stéphane Couturier, «Villa Eileen Gray - #8, E-1027+123 series», 2021-22. Courtesy of the artist / Galerie Christophe Gaillard/ Centre des Monuments Nationaux/ Fondation Le Corbusier.

Il secondo capitolo di questa piccola epica dell’architettura fotografata si sposta all’Abbaye de Montmajour, dove Stéphane Couturier mette in scena un corpo a corpo delicato e spietato con uno dei luoghi più controversi della storia dell’architettura del XX secolo: la villa E-1027 di Eileen Gray e Jean Badovici, violentata con una certa nonchalance dalle pitture murali di Le Corbusier. Il titolo della mostra, «E-1027+123», è già un rebus poetico, e suggerisce una specie di nuova algebra dell’arte totale: 10 sta per J (Jean), 2 per B (Badovici), 7 per G (Gray), 12 per L (Le), 3 per C (Corbusier). Un codice d’amore e rivalità, siglato sulla pelle della casa. Couturier, che da tempo lavora sul concetto di stratificazione, famose le sue «fusioni» tra fabbriche Toyota e metropoli moderniste, qui sovrappone livelli di tempo, spazio, visione. L’architettura si mescola al paesaggio, i mobili di Gray dialogano con le pitture di Corbu e l’obiettivo fotografico diventa un bisturi che taglia e ricuce, svela e reinventa. Il risultato è una sorta di riconciliazione tardiva tra due visioni radicali dell’abitare. Non c’è giudizio, solo complessità. La fotografia diventa così un medium per raccontare i conflitti dell’arte come fossero strati geologici: si sedimentano, si contrastano, ma alla fine costruiscono un paesaggio nuovo.

Terza e ultima tappa ai Cryptoportiques d’Arles, dove Batia Suter presenta «Octahydra», una delle installazioni più spiazzanti (e riuscite) dell’intero festival. Suter, artista svizzera residente ad Amsterdam, parte da immagini d’architettura raccolte da libri e riviste vintage e le trasforma in una specie di mostro visivo, un montaggio tentacolare che invade lo spazio come una creatura aliena. La regia architettonica dell’allestimento è firmata da Sami Rintala, che costruisce un ambiente fisico dentro cui le immagini diventano esperienze corporee, percorribili, assorbibili. Ma «Octahydra» è molto più di un collage. È un’indagine poetica sull’effetto che gli edifici hanno sulla nostra psiche. Alcune facciate sembrano volti, altre sembrano minacciare di cadere addosso allo spettatore. C’è un senso di familiarità disturbante, una tensione continua tra l’oggetto rappresentato e la reazione che innesca. Le costruzioni modeste raccontano resilienza, quelle monumentali un potere che a volte si trasforma in imposizione. E poi, in un cortocircuito finale, appare uno schermo pieno di contenitori per alimenti: metafora plastica di una cultura che si plasma e si ricicla, che trattiene e insieme si lascia contaminare.

Tre mostre, tre sguardi radicali, una sola grande domanda: che cosa ci dice l’architettura di noi stessi, quando la guardiamo attraverso una fotografia? Ai Rencontres d’Arles 2025 la risposta non arriva con la voce dell’autorità, ma con la molteplicità di un coro. E se la geometria è variabile, come suggerisce il titolo della sezione, è perché anche le forme che abitiamo, e le immagini che ne conserviamo, lo sono. Mobili, instabili, in continua metamorfosi. Proprio come noi.

Uno still dal video «Excerpt from Octahedral», 2024, di Batia Suter dall’«Out of Metropolis project», NŌUA, Bodø. Courtesy of the artist

Germano D’Acquisto, 06 luglio 2025 | © Riproduzione riservata

Il corpo mutevole dell’architettura s’incontra con la fotografia ad Arles | Germano D’Acquisto

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