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Cecilia Paccagnella
Leggi i suoi articoliTra i capolavori conservati nel Museum of Modern Art di New York, «Number 1A» (1948) di Jackson Pollock continua ad affascinare per la sua intensità visiva e complessità tecnica. Un intreccio di linee, colature e grovigli cromatici, in cui una nebbia biancastra sembra fluttuare tra nervature scure, animate da dettagli rosa, rosso e un blu vibrante.
Un gruppo di ricercatori del museo e chimici dell’Università di Stanford ha identificato, grazie alla spettroscopia Raman (una tecnica che misura il movimento delle molecole di vernice per mezzo di laser), il pigmento impiegato dal padre dell’Action Painting: si tratta del «blu di manganese», un composto sintetico introdotto sul mercato negli anni Trenta e allora molto diffuso tra artisti, restauratori e nell’edilizia. Fino a poco tempo fa si ipotizzava che Pollock avesse usato una vernice turchese, ma le analisi hanno smentito questa teoria, restituendo un nuovo tassello alla comprensione della sua pratica.
La particolarità di questo pigmento risiede nella sua purezza ottica: la tonalità intensa e uniforme deriva da un processo fisico noto come «transizione di trasferimento di carica», in cui le luci verde e viola vengono assorbite, lasciando riflettere solo un blu profondo e brillante; una qualità che ha reso il «blu di manganese» molto apprezzato durante il secolo scorso. Tuttavia, il pigmento è progressivamente scomparso dalle tavolozze a partire dagli anni Novanta per motivi ambientali.
La ricerca (i cui risultati sono stati pubblicati in un articolo pubblicato il 15 settembre su «Proceedings of the National Academy of Sciences») si inserisce in un più ampio progetto di studio dei materiali impiegati da Pollock nell’opera del MoMA, che aveva già portato all’identificazione del giallo e del rosso cadmio: queste analisi aiutano a comprendere le scelte dell’artista e il contesto tecnico e culturale in cui operava.
«Number 1A» ha segnato una svolta nella carriera di Pollock. Realizzata su tela senza sostegno, stesa orizzontalmente a terra, si tratta di uno dei primi esempi di rottura con la tradizionale pittura da cavalletto e l’uso di titoli descrittivi. Ed è costruita a strati: un primo strato con impronte di mani, su cui sono state effettuate pennellate di colore prelevato direttamente dal tubetto e per poi concludere con le emblematiche colature (da cui il termine «dripping»).
Se Pollock non poteva conoscere le caratteristiche chimiche del «blu di manganese», il suo istinto lo spinse a scegliere una tonalità capace di dare forza e profondità alla sua composizione. Un gesto che oggi, grazie alla scienza, conferma la sua modernità.
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