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In mostra figura l’opera di Pansee Atta «To Make One Particle», che in piccole tessere lignee riporta l’indicazione di ogni resto umano presente nella collezione del Wereldmuseum

Foto Les Adu

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In mostra figura l’opera di Pansee Atta «To Make One Particle», che in piccole tessere lignee riporta l’indicazione di ogni resto umano presente nella collezione del Wereldmuseum

Foto Les Adu

Il Wereldmuseum di Amsterdam pensa a uno spazio per ospitare «con rispetto» i resti umani

Secondo Wayne Modest, direttore dei contenuti dell’istituzione olandese, la presenza di aree in cui «le persone possano venire per stare con i propri antenati» potrebbe rappresentare una soluzione provvisoria a una questione eticamente complessa

In un momento in cui i musei di tutto il mondo si confrontano su come conservare o restituire in modo etico i resti umani, il Wereldmuseum Amsterdam ha avuto l’idea di creare un nuovo spazio per le «pratiche rituali» nel quale, in attesa di una soluzione più definitiva, collocare la propria collezione. All’inaugurazione della mostra «Unfinished past: return, keep, or...?» (Passato incompiuto: restituire, conservare, o...?)  il direttore dei contenuti del Wereldmuseum, Wayne Modest, ha dichiarato che l’istituzione ha deciso di non esporre pubblicamente nelle sue tre sedi (le altre due sono a Leida e a Rotterdam) resti umani della sua collezione, accumulati durante il periodo coloniale olandese. «Abbiamo scelto di non mostrarne nessuno, ha confermato. E questo è uno sforzo che coinvolge molti musei diversi. Per noi è una questione complessa perché l’antropologia fisica è uno dei dipartimenti più importanti. Non le esponiamo più, ma abbiamo ancora circa 4mila parti umane nel deposito. E la domanda è: che cosa ne facciamo?».

Il Governo olandese è molto avanti nella politica di rimpatrio dei beni coloniali «persi involontariamente dai Paesi di origine», ma non ha ancora pubblicato linee guida sui resti umani, che vanno da teschi non identificati a un neonato surinamese conservato in formaldeide. A detta di Modest una delle questioni aperte per il museo è se, in futuro, potrà creare uno spazio per «pratiche rituali, in cui le persone possano venire per stare con i propri antenati» o «uno spazio che sia rispettoso, fino a quando non si troverà una soluzione».

Nella mostra, aperta dal 9 maggio, figurano opere commissionate ad artisti contemporanei e approfondimenti tratti da un programma di ricerca internazionale quadriennale, Pressing Matter: Ownership, Value and the Question of Colonial Heritage in Museums (Una questione urgente: proprietà, valore e il tema del patrimonio coloniale nei musei). Come i reperti coloniali siano stati acquisiti in nome della scienza, le tecniche di conservazione tossiche, per esempio la disinfestazione con il Ddt, e la questione di chi possa «riprendersi» i resti umani antichi di origine sconosciuta, sono tra i temi affrontati in mostra.

Un’opera dell’artista e ricercatore egiziano-canadese Pansee Atta, «To Make One Particle», riporta in piccole tessere lignee ogni parte del corpo presente nella collezione del museo, con descrizioni quali «osso (umano), ante 1953, Oceania» o «teschio, ante1951, America centrale e meridionale» e un invito ai visitatori a riordinarle. «È ciò che Michael Rothberg chiama essere implicati, spiega Modest. Quando inizi a organizzare le cose, che cosa significa questo per il potere che hai su di esse? ... Si pone allora la domanda: come ci assumiamo la responsabilità di un passato di cui non abbiamo fatto parte?».

Modest ritiene però che il suo museo abbia la responsabilità morale di affrontare questioni difficili, comprese quelle relative ai resti umani: «È la nostra storia coloniale, quindi riguarda noi come museo, riflette. Ma riguarda anche noi come società».

Ovviamente i musei olandesi non sono gli unici ad avere una collezione coloniale di resti umani. Lo Stato francese ha restituito 20 teste ancestrali maori alla Nuova Zelanda nel 2012 e nel 2023 ha approvato una legge per facilitare la restituzione dei resti umani ai loro Paesi d’origine. Ciò ha portato al rimpatrio in Algeria nel 2020 di teschi ritenuti appartenenti a 24 combattenti della resistenza algerina e, nel 2024, alla Guyana francese dei resti di altre sei persone, un tempo esposti negli zoo parigini.

Nel frattempo, il Musée du quai Branly-Jacques Chirac di Parigi, che espone oggetti di proprietà dello Stato francese, ha avviato un vasto progetto sulla provenienza per ricostruire la storia degli oggetti, in collaborazione con team scientifici dei Paesi di origine, al fine di verificare se siano stati acquisiti in modo incerto o illecito. La mostra «La missione Dakar-Gibuti (1931-1933): Controinchieste», aperta al pubblico ad aprile, è il risultato di uno di questi progetti realizzati in collaborazione con professionisti di sei Paesi africani.

Al British Museum di Londra, per contro, non ci sono segni di cambiamento. L’istituzione londinese ha rinviato «The Art Newspaper» al proprio sito web, dove si afferma che il museo «conserva e custodisce resti umani provenienti da tutto il mondo», espone alcune delle 6mila parti di corpi e ha una raccolta di saggi, pubblicata nel 2014, su quelle che definisce «le questioni». Sempre sul sito web si legge: «I sondaggi dimostrano che la maggior parte dei visitatori è a proprio agio e che tra gli elementi allestiti nel nostro museo si aspetta di vedere resti umani nelle esposizioni del nostro museo».

 

 

 

 

Senay Boztas, 04 giugno 2025 | © Riproduzione riservata

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