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Ritratto di gruppo dei membri della spedizione: Griaule, Lifshitz, Roux, Abba Jérôme, di uno schiavo (Dasta), Leiris, di un bambino, all’ingresso di un villaggio nella regione di Gondar, in Etiopia, nel luglio 1932

© Marcel Griaule / Service de presse / Musée du quai Branly-Jacques Chirac, Parigi

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Ritratto di gruppo dei membri della spedizione: Griaule, Lifshitz, Roux, Abba Jérôme, di uno schiavo (Dasta), Leiris, di un bambino, all’ingresso di un villaggio nella regione di Gondar, in Etiopia, nel luglio 1932

© Marcel Griaule / Service de presse / Musée du quai Branly-Jacques Chirac, Parigi

Colonialismo, controinchieste sulla missione Dakar-Gibuti

Indissolubilmente legata al contesto che l’ha vista nascere, la mitica spedizione etnografica e linguistica condotta tra il 1931 e il 1933 in 14 Paesi africani, cui presero parte una decina di studiosi, tra cui l’etnologo Marcel Griaule e lo scrittore Michel Leiris, è oggetto di una rilettura polifonica al Musée du quai Branly-Jacques Chirac a Parigi. Un’occasione per mettere in luce pratiche di raccolta e acquisizione quantomeno discutibili

 

Bérénice Geoffroy Schneiter

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Più di 3.600 oggetti, 6mila esemplari naturalistici, 370 manoscritti, 70 ossa umane, quasi 6mila fotografie, 15mila schede di indagini tematiche, senza contare le 250 registrazioni sonore e i 3.600 metri di pellicola: è questo il bottino eccezionale di documenti raccolti dalla missione etnografica e linguistica condotta tra il 1931 e il 1933 dall'etnologo francese Marcel Griaule e immortalata dallo scrittore Michel Leiris nel suo libro L’Afrique fantôme, pubblicato nel 1934 da Gallimard (la prima traduzione italiana, col titolo L’Africa fantasma, è uscita per Rizzoli nel 1984; Quodlibet ha proposto una nuova edizione del testo nel 2020, Ndr).

A quasi un secolo di distanza, è evidente che il contesto che ha dato vita a questa vasta impresa volta a salvaguardare con urgenza culture minacciate di estinzione è ora oggetto di riflessione da parte dei ricercatori attraverso la lente della decolonizzazione. Invitando una decina di scienziati francesi e africani a condurre controinchieste sul campo in una trentina di località attraversate dalla missione, il Musée du quai Branly-Jacques Chirac di Parigi si è proposto di «decentrare lo sguardo per dissipare i punti ciechi», secondo le parole dell'antropologa Gaëlle Beaujean, che ha orchestrato con rigore l’ambiziosa mostra dal titolo «Mission Dakar-Djibouti (1931-1933): contre-enquêtes» (dal 15 aprile al 14 settembre 2025). 

Attraverso circa 350 oggetti e numerosi archivi, la mostra è anche un formidabile invito a riportare alla luce i protagonisti invisibili di questa avventura: interpreti, informatori, artisti, sacerdoti, iniziati, «chefs de canton» (i capi locali), meccanici, manovali, ma anche donne europee e africane

 

 

 

Una disciplina nascente

Sarebbe tuttavia errato sottovalutare il carattere decisamente pionieristico di questa avventura tanto scientifica quanto umana. Basandosi in gran parte sulle conquiste della famosa «Croisière noire Citroën» (la spedizione organizzata dalla casa automobilistica che tra il 1924 e il 1925 attraversò l'Africa da nord a sud, Ndr), Marcel Griaule, etnologo di 32 anni, accarezza allora il sogno di compiere un vasto viaggio transafricano per mettere in pratica i rigorosi metodi insegnati dall’Istituto di etnologia dell’Università di Parigi, fondato nel 1925.

«Una scatola di latta, ad esempio, caratterizza meglio le nostre società del gioiello più sontuoso o del francobollo più raro», era l’insegnamento impartito da Marcel Mauss, maestro di Marcel Griaule. In una foto scattata nel maggio 1931 nelle sale del Museo di Etnografia del Trocadéro, il giovane etnologo posa orgogliosamente con i suoi compagni davanti alla barca metallica smontabile della missione, pochi giorni prima della grande partenza. Si riconoscono, da sinistra a destra, il musicologo André Schaeffner, il linguista Jean Mouchet, il museologo Georges Henri Rivière, Michel Leiris (che fungerà da segretario archivista), Michel Oukhtomsky, Marcel Griaule (al quale sarà attribuita, senza dubbio a torto, l’esclusiva delle fotografie), il cineasta Éric Lutten, il meccanico Jean Moufle, il pittore Gaston-Louis Roux e Marcel Larget, responsabile dell’intendenza e del materiale. Assenti dalla foto sono il naturalista Abel Faivre e l’etnologa di origine polacca Deborah Lifchitz, assunta nel 1932, unica donna della delegazione, alla quale la mostra rende un bellissimo omaggio.

Grazie a una campagna mediatica senza precedenti (destinata ad attirare sponsor e mecenati), la missione ottenne inoltre un finanziamento eccezionale di 700mila franchi votato dalle due camere del Parlamento, una legittimità ufficiale che si tradusse sul campo nel sostegno incondizionato dell’amministrazione coloniale...

 

 

Opere «requisite»

È una vera e propria frenesia collezionistica quella che si impadronisce di Marcel Griaule e dei suoi compagni quando attraversano i quattordici Paesi scelti dalla missione, tutti sotto il dominio coloniale europeo, ad eccezione dell’Etiopia. Non si trattava forse di archiviare con urgenza i manufatti delle culture africane destinate a una prossima acculturazione? «All’inizio del viaggio i membri della missione raccoglievano indistintamente e metodicamente tutti gli oggetti rappresentativi di una cultura, in particolare quelli più comuni, in conformità con le istruzioni fornite dall’Istituto di etnologia; ma, a partire da Bamako, privilegiano sempre più gli oggetti di culto qualificati come “sacri” o “segreti”, “prelevandoli”, a volte senza il consenso dei proprietari, dalle grotte o dai “santuari” dove sono custoditi. Naturalmente, l’impunità e l’autorità conferite loro dal contesto coloniale consentono, se non addirittura favoriscono, tali pratiche», sottolineano all’unisono Éric Jolly, Marianne Lemaire e Salia Malé nel catalogo della mostra.

Presenti in mostra, due oggetti da soli riassumono le derive a cui si sono talvolta abbandonati Marcel Griaule e i membri della spedizione. Seminascosto sotto un cumulo di sangue coagulato, un boli (feticcio) zoomorfo appartenente alla società iniziatica Kono e la grande maschera verticale ad esso associata furono così «requisiti» il 7 marzo 1931 nel villaggio di Diabougou (nell’attuale Senegal), nonostante il rifiuto del capo del culto. «[Éric] Lutten stacca la maschera dal costume decorato di piume a cui è attaccata, me la passa perché la avvolga nella tela che abbiamo portato e, su mia richiesta, mi dà anche una specie di maialino sempre ricoperto di torrone marrone (cioè sangue coagulato), che pesa almeno 15 chili e che io impacchetto insieme alla maschera. Il tutto viene rapidamente portato fuori dal villaggio e torniamo alle auto attraverso i campi. Quando partiamo, il capo vuole restituire a [Éric] Lutten i 20 franchi che gli abbiamo dato. [Éric] Lutten glieli lascia, naturalmente. Ma non per questo è meno brutto», racconterà Michel Leiris in L’Afrique fantôme.

Se può sembrare fuorviante riassumere la missione Dakar-Gibuti come una vasta operazione di saccheggio, d’altra parte appare ormai più che necessario interrogarsi senza mezzi termini sulle diverse modalità di acquisizione che hanno presieduto all’ingresso di alcuni oggetti nelle collezioni museali. «Questa mostra è il punto di partenza di una nuova collaborazione tra professionisti museali occidentali e africani. È importante guardare con occhi nuovi questi oggetti/soggetti, che sono stati separati dalle famiglie a cui appartenevano e che venivano tramandati di generazione in generazione», sostiene Didier Marcel Houénoudé, ricercatore all'Università di Abomey-Calavi (Benin). Da seguire...

 

Bérénice Geoffroy Schneiter, 03 giugno 2025 | © Riproduzione riservata

Colonialismo, controinchieste sulla missione Dakar-Gibuti | Bérénice Geoffroy Schneiter

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