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Giorgio Griffa

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Giorgio Griffa

Giorgio Griffa: la mia «Recherche»

L’artista ha presentato un recente ciclo di opere ispirate dalla lettura di Marcel Proust e incluse in un’antologica tenutasi in giugno al Centre Pompidou

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Franco Fanelli

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«Mi piace pensare che quando Proust evoca un ricordo, segna il passaggio dallo stato di energia latente, indifferenziata e sconosciuta all’idea (...). In pittura accade qualcosa di simile quando il pennello appone un segno sulla tela e fissa in primo luogo l’identità di questo segno, al di là dell’uso e delle funzioni che l’umanità gli ha attribuito in tempi diversi nei millenni passati. Secondo me, è sempre un processo della ragione. La poesia non è una fuga dalla ragione ma piuttosto una delle sue espressioni, è la ragione che ci mostra i mezzi per uscire dai suoi limiti, per entrare nell’indeterminato, per catturare l’immensa energia che esiste nel mondo occulto e nel profondo di noi stessi. Ricerca, appunto».

Con queste parole l’artista ha presentato un recente ciclo di opere ispirate dalla lettura di Marcel Proust e incluse nell’antologica tenutasi in giugno al Centre Pompidou. Curata da Christine Macel, la rassegna allinea opere realizzate dal 1969 a oggi, diciotto delle quali sono state donate al Musée d’art moderne. Ulteriori riflessioni del pittore torinese (1936) sono contenute nel libro Undici cicli di pittura, edito da Umberto Allemandi, nonché in questa intervista.

Vorrei iniziare proprio con Proust. Il lavoro che ho realizzato sulle tele trasparenti è un po’ come un concerto sinfonico: ogni segno si cancella e si somma con gli altri e forma dei segni diversi. Anche la memoria «precisa» di Proust in realtà è un turbinio in cui ci si perde e allora abbiamo bisogno di una struttura formale, la stessa necessità che ha un concerto.

Però, soprattutto quando si tratta di arte contemporanea, sembra che non possiamo prescindere dalla parola...
Il punto è che sia la parola sia le immagini, la pittura, portano sempre con sé qualcosa di più, qualcosa di oltre, che è quel di più dove si nasconde la poesia.

Perché, a proposito di poesia, Ezra Pound costituisce per lei un punto di riferimento costante?
La poesia passa dalla gerarchia perfetta della Commedia di Dante all’assoluta assenza di gerarchia di Pound. Il ritmo, come nella musica, segue la poesia dalla nascita; l’Iliade è scandita in endecasillabi (nella traduzione di Vincenzo Monti). Ma dal ritmo passano anche la conoscenza e la vita dell’umanità: dal ritmo delle semine dei raccolti a quello del cielo e delle stelle. Anche la pittura ha dei ritmi diversi in quanto legati alle condizioni in cui essa si realizza. C’è ritmo nella pittura egizia, c’è ritmo nella prospettiva di Piero della Francesca.

Lei ha detto che abbandonò la pittura figurativa per evitare di restare un pittore dilettante. Quindi l’astrattismo è l’unica via percorribile, oggi, per la pittura?
Non lo penso affatto. La pittura aniconica fa parte di un mio percorso personale. Probabilmente non ero capace di dominare la figura e avevo bisogno di passare da un’altra parte. La mia incapacità era inconsapevolmente legata a ciò che oggi per me è una consapevolezza: è attraverso i nostri limiti e le nostre incapacità che riusciamo a fare le cose migliori. 

Si è cercato di attribuire diverse etichette alla sua pittura: minimalismo lirico, pittura analitica... Lei in che cosa si riconosce?
Io non mi sono mai riconosciuto integralmente in questi movimenti, anche se reputo fondamentale l’esperienza del Minimalismo, perché raccoglie la memoria profonda, storica, ancestrale della pittura. 

Si è detto che Mondino e Boetti siano stati importanti per la sua esperienza. Di Mondino riconosco il medesimo gusto per l’ornamentazione, per la decorazione nel senso più alto dell’espressione. Ma che cosa mi dice di Boetti?
Per me il controllo della mano è essenziale, però quello che mi ha lasciato il rapporto con Boetti è questa sua grande apertura rispetto a ciò che è nelle mani di tutti. Io traccio dei segni scelti come segni anonimi, non personalizzati da una mia sigla unica. In Boetti c’è un passaggio importante: non è detto che per fare pittura sia necessario passare dall’Accademia. Io ho seguito una scuola di pittura. Però le mani delle ricamatrici afghane che lavoravano per Boetti si portavano dietro un insieme di cultura e conoscenza che, se riordinate dall’artista in un mondo diverso, diventano, appunto, arte. E poi quando uso le parole nella mia pittura ho un debito forte proprio con Boetti.

Che cos’è l’«intelligenza della materia» di cui lei spesso scrive?
Esistono il mondo animato e il mondo inanimato. L’artista raccoglie un elemento del mondo inanimato e lo sposta nel mondo animato dandogli voce. La pittura, in tal senso, conserva ancora un’immensa capacità di agire nel mondo. Noi sappiamo che tutto il mondo è un insieme di miliardi di miliardi di particelle che si espellono, s’incontrano, si mangiano l’una con l’altra, partoriscono altre particelle, «fanno vita». Ciò che ci pare inanimato ha una seconda parte nascosta, nota solo alla scienza, ed è una parte di vita fortissima. Questo è uno spazio straordinario che apre alla pittura possibilità enormi.

Come riesce, nella sua pittura, a far convivere la tradizione quattrocentesca occidentale, il numero aureo, e la cultura orientale?
Il mondo di Piero della Francesca, nel mio lavoro, continua a esistere, ma io ho cancellato qualcosa, fin dai primi lavori, costituiti da sbarrette di colore messe una accanto all’altra. Questo non perché volessi cancellare la grandezza di Piero. Ciò che lui e altri pittori del Quattrocento hanno realizzato, al di là di quella che era la struttura di pensiero di quel momento, sono e restano strutture sostanziali, che vanno al di là del tempo. Ma lo stesso potrei dire della pittura giapponese. Dobbiamo cercare di capire che il meccanismo del dilemma contiene in sé la contraddizione. Scegliere un «corno» o l’altro era un tempo una regola logica che però nel mondo attuale non è più soddisfacente. Io sto lavorando a un ciclo di opere che s’intitola appunto «Dilemma», in cui metto insieme gli opposti perché gli opposti convivono. La pittura giapponese convive con quella di Piero della Francesca. E convivevano anche nel XV secolo. Ma all’epoca le filosofie cui facevano capo, di qua il pensiero tolemaico, di là il pensiero Zen, non avevano possibilità di incontrarsi.
 

Giorgio Griffa

Franco Fanelli, 09 agosto 2022 | © Riproduzione riservata

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