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Eike Schmidt. Foto: Ulisse Albiat per Wikipedia

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Eike Schmidt. Foto: Ulisse Albiat per Wikipedia

Eike Schmidt: «Agli Uffizi c’è ancora molto da fare»

I prossimi obiettivi per il colosso da più di 4 milioni di visitatori all'anno

Carlo Accorsi

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Eike Schmidt aspettava il ritorno di Franceschini e il nuovo impegno in favore dei musei per confermare la rinuncia a Vienna: dirigerà per altri 4 anni gli Uffizi, quasi completamente riallestiti con grande efficacia. Prossimi obiettivi: il Corridoio Vasariano e grandi lavori a Palazzo Pitti e Boboli

Eike Schmidt è tedesco, ha studiato a Firenze, è esperto di arte toscana, parla un italiano perfetto. È entusiasta e loquace. Soprattutto adesso, dopo aver confermato il suo desiderio di rimanere a dirigere, per altri quattro anni, le Gallerie degli Uffizi: un mega polo composto non soltanto dagli Uffizi, ma anche da Palazzo Pitti e Giardino di Boboli. Un colosso da più di 4 milioni di visitatori all’anno. Ma prima di accettare il reincarico, e di comunicare quindi il suo rifiuto al Kunsthistorisches Museum di Vienna che pure lo voleva alla sua guida, ha aspettato non soltanto la nomina di Franceschini, che l’aveva voluto agli Uffizi nell’ambito della sua riforma dei «supermusei» italiani, ma anche che il nuovo Governo confermasse la volontà di investire su cultura, musei, autonomia.

Perché agli Uffizi c’è ancora molto da fare. E molto è stato fatto, dall’insediamento di Schmidt il 5 novembre 2015. Tra l’altro, il riallestimento complessivo di alcune delle sale principali della Galleria delle Statue e delle Pitture agli Uffizi, come quelle di Botticelli, Leonardo, Michelangelo e Raffaello, oltre all’apertura di nuovi spazi per Caravaggio e i Caravaggeschi (nei quali è stata per la prima volta collocata da protagonista, con una stanza tutta per sé, la celeberrima Medusa).

Ed è di pochi mesi fa (il 29 maggio) la più grande inaugurazione di sale mai realizzata nel museo: quella della pittura del Cinquecento veneziano e fiorentino. Dal 2014 al 2018 i visitatori delle Gallerie sono aumentati del 26%: da 3.297.897 a 4.153.101. Gli introiti sono cresciuti del 112%: da 16,1 milioni di euro a 34,1. C’è un nuovo sito, www.uffizi.it, e la presenza sui social (come Uffizi Galleries) conta 368mila follower su Instagram, tra i primi al mondo. E poi una rinnovata attività scientifica: solo nel 2018 gli Uffizi hanno dato alle stampe 25 pubblicazioni.

Direttore, la sua recente conferma alle Gallerie degli Uffizi annulla il timore e la volontà da lei espressa di trasferirsi al Kunsthistorisches Museum di Vienna. Le è costato molto rinunciare?

Certamente non è stata una scelta indolore. Sono tedesco ma di Friburgo che fino al 1806 faceva parte dell’Austria e poi nel 1815 la separazione dall’Austria fu confermata dal Congresso di Vienna.

Sarebbe stato un ritorno in patria.

Il Kunsthistoriches di Vienna è uno dei grandi musei europei e del mondo. È uno dei pochi di questa importanza a non avere un Gabinetto disegni e stampe perché quella che era la collezione imperiale di disegni e stampe è diventata l’Albertina, mentre ha una splendida raccolta di quadri. Comprende anche tutta la parte archeologica: l’egittologia, l’archeologia classica, i tesori del Sacro Romano Impero, quindi corone e cimeli imperiali che risalgono fino al X secolo (una collezione che non solo per importanza ma anche per l’estensione cronologica del collezionismo gareggia solo con il Vaticano e con il Louvre, ma rispetto a questi è più importante per quanto riguarda il Medioevo). Per il mio curriculum scegliere un grande museo europeo sarebbe stata la cosa giusta da fare, ma io non vivo per il mio curriculum. Qui a Firenze ho iniziato un lavoro che già dopo quattro anni ha dato risultati che non mi sarei mai neanche sognato. Questa decisione è stata recentissima perché non sarebbe stata pensabile con il Governo precedente che aveva l’intenzione di ridimensionare il ruolo dei direttori dei musei autonomi. Nella riforma Bonisoli che, come ha calcolato l’ex direttore generale dei Musei Ugo Soragni, è l’undicesima riforma del Mibact dal Duemila (quella Franceschini era la decima, contando solo le riforme maggiori degli ultimi vent’anni), c’erano svariate idee molto valide, ma era diventato chiaro che il ruolo del direttore del museo (così come era definito e così come i primi decreti attuativi che il Governo già in fase di dissolvimento aveva cominciato a emettere) fosse destinato a essere ridimensionato.

Secondo lei perché?

La ragione è molto chiara: perché dopo una riforma che dava molta decisionalità alle strutture locali e regionali, si tornava al centralismo decisionale e per alcuni versi si risaliva a norme già abbandonate nel 2001 per ricostituire un assetto che valeva fino a quell’anno. Dunque una visione chiaramente centralista.

Per ragioni operative o politiche?

Io mi immagino per motivi politici perché nel Governo giallo-verde c’era un forte regionalismo della Lega, una tendenza centrifuga che i 5 Stelle cercavano di limitare e contrastare cercando di attuare, almeno in quel Ministero (uno dei pochi in cui era possibile), un forte centralismo. Quindi una posizione in controtendenza all’interno di un equilibrio tra queste due forze antitetiche, che tuttavia si è rivelato poco stabile.

Quindi il nuovo Governo è stato determinante per la decisione.
Non potevo saperlo nell’immediato, perché bisognava prima vedere quali erano le priorità del Governo, ma quando il ministro Franceschini si è dichiarato a favore della riforma dei musei, ha dato un segnale molto forte. In pochi giorni (letteralmente) ho dovuto prendere una decisione. Prima era più una speranza utopica, romantica, nostalgica: rimanere qui a Firenze a portare avanti i progetti iniziati. Il fatto era che le mani dei direttori dei musei non erano soltanto legate dal centralismo ma anche dal fatto che erano stati cancellati i Consigli di Amministrazione. Rimaneva comunque il Comitato scientifico, in una posizione molto più forte. In questo modo si cadeva giocoforza in una situazione di lentezza, se non addirittura di stallo operativo. Il fatto è che l’immagine stereotipata del dipendente statale è di uno che timbra il cartellino, e poi passa il tempo a bere il caffè e navigare su internet, ma se messo nelle condizioni di lavorare per risultati concreti, che si vedano realizzati in un tempo ragionevole, il dipendente statale è prontissimo a impegnarsi. La cosa più bella è vedere i risultati ottenuti. L’ho visto con tantissimi miei colleghi che inizialmente erano scettici non tanto verso di me come persona, ma verso il sistema. Avendo vissuto negli anni Novanta a Firenze e avendo organizzato come curatore esterno una mostra a Palazzo Pitti nel 2013, dedicata agli avori del periodo barocco, quando sono tornato come direttore ho subito trovato colleghi che si sono impegnati e si sono fatti trascinare. Visti poi i risultati, moltissimi altri si sono sentiti coinvolti e ora posso contare su una squadra formidabile che in nessun’altra parte al mondo potrei trovare. E questo nonostante le limitazioni del sistema italiano, a partire dal fatto che non posso scegliere i miei collaboratori, che sono tutti selezionati dal Ministero a Roma. Non posso nemmeno promuoverli! L’unica procedura permessa a un dirigente di prima fascia in Italia è quella disciplinare del rimprovero verbale, senza nessun effetto concreto, mentre l’unica spinta operativa è la motivazione. E che cos’è più motivante di un lavoro fatto insieme?

Quanto conta l’autonomia per dirigere un grande museo?

La nostra autonomia parziale è scientifica, economica e organizzativa. Non è quindi relativa al personale. Ma sul personale non ci vuole la totale autonomia, non è necessario che la gestione diventi locale rispetto a quella attuale che è in capo al solo Mibact, piuttosto servirebbero meccanismi precisi per ottenere tra i vari dipendenti statali quelli che veramente servono.

Che cosa servirebbe davvero?

Senz’altro sarebbe utile poter avere più concretezza nella richiesta e nell’assegnazione. Faccio un esempio. Al Museo della Moda e del Costume a Palazzo Pitti (che in questo settore è uno dei più importanti musei al mondo insieme al Victoria and Albert Museum di Londra e al Costume Institute del Metropolitan di New York) sarebbe estremamente importante avere un restauratore di tessuti. Anzi, è fondamentale. Abbiamo tessuti a partire dai Medici e proprio a Palazzo Pitti nel 1948 si tenne la prima sfilata dopo la guerra, che ha segnato la nascita del prêt-à-porter mondiale. E abbiamo anche una delle più grandi e importanti collezioni di arazzi e tappeti. Insomma, sarebbe fondamentale avere almeno uno, se non tre o quattro, restauratrici o restauratori di tessili ma questo è impossibile perché al Ministero possiamo solo richiedere personale con la qualifica generica di «restauratore». Potrebbe dunque succedere che venga nominato un restauratore specializzato in tutt’altro. All’Accademia di Firenze per esempio è stata assegnata una restauratrice specializzata in oggetti in pietre dure: ma non c’è una singola opera in commesso di pietre dure all’Accademia. Per capire ancora meglio: è come se un ospedale avesse necessità di un oculista, ma potesse solo indicare la voce «medico» e quindi gli assegnassero un pediatra o un ortopedico... Lo stesso accade con gli «assistenti tecnici», che comprendono professioni completamente diverse tra loro come elettricisti, idraulici, ingegneri e architetti. Ed è chiaro a tutti che non sono competenze equivalenti. Per noi a volte è un grande problema non poter avere le professionalità che davvero ci servono.

Ha parlato dell’Opificio delle Pietre Dure. Come collaborate?

In molti modi. Una tra le prime cose che ho stabilito dopo il mio arrivo è stato un accordo di collaborazione e ricerca comune con l’Opificio delle Pietre Dure che proprio la settimana scorsa abbiamo sostituito con un nuovo accordo molto più approfondito. Prevede anche che chi acquista un biglietto degli Uffizi entro cinque giorni possa valersi dell’ingresso gratuito al museo dell’Opificio entro cinque giorni. Così abbiamo fatto con il Museo Archeologico Nazionale, altro museo bellissimo e tormentato perché ha pochissimi visitatori, sebbene abbia la più importante raccolta di archeologia etrusca, greca e romana a nord di Roma e vanti la seconda collezione di arte egizia dopo il Museo Egizio di Torino.

Le collaborazioni con i musei sono tra gli atti da lei incentivati. Con chi di fatto ha stabilito migliori relazioni di coordinamento?

Proprio il Museo Archeologico e l’Opificio: e questo è stato possibile grazie all’autonomia. Ma collaboriamo molto anche con la Direzione generale per l’Educazione e la Ricerca.

Quella di Francesco Scoppola, che ha appena finito il suo mandato.
Lì c’è una funzionaria specializzata in arte contemporanea, Renata Pintus, che collabora con noi un giorno alla settimana perché qui agli Uffizi non c’è un curatore di arte contemporanea. C’è una bravissima storica dell’arte, Chiara Toti, che però è inquadrata diversamente e quindi si ritorna alla questione del personale che dicevo prima. Qui a Firenze comunque prevale la mentalità che dopo il Rinascimento l’arte non valga più granché. Questa è una cosa tipicamente fiorentina.

Marino Marini ci raccontava le difficoltà di esporre a Firenze...

Noi abbiamo una sua scultura proprio all’ingresso degli Uffizi.

Quali sono state le principali difficoltà di questi primi quattro anni?

Inizio dalle cose positive perché, come dice mia moglie, io non solo vedo sempre il bicchiere mezzo pieno ma anzi   pieno all’80%. Una caratteristica dei colleghi qui agli Uffizi è che si possono appassionare a un progetto di lavoro in maniera totale, con un’abnegazione meravigliosa. Se per esempio tre giorni prima dell’inaugurazione di una mostra viene fuori che qualcosa non funziona, c’è chi è disposto anche a lavorare tutta la notte per rendere il risultato bello e perfetto per la data stabilita. Questa dedizione, questa elasticità, non si trova in nessun altro Paese.

Gli italiani sono dei buoni lavoratori se li si sa motivare bene, anche attraverso la qualità del lavoro.
Anche questo è molto importante, la qualità di lavoro sia a livello della conoscenza sia a livello dell’esperienza e aggiungo anche della parte “artigianale” che c’è in ogni lavoro. Ho notato che in Italia, forse per la continua esposizione all’arte, anche nell’attività intellettuale c’è una sapienza che nasce dalla familiarità con la prassi manuale, e anche questa è una qualità che si trova poco negli altri Paesi. Ho ben presente i problemi incontrati in America e in Germania.

Anche tra i più giovani?

Alcuni tra i miei migliori colleghi sono proprio dei giovani, entrati con il concorso del Mibact di due anni fa. Sono motivatissimi e ben preparati. Alcuni di loro hanno anche delle esperienze lavorative fuori del Ministero e questo è un grande valore. Non succede più, evidentemente, come in passato quando in genere si partecipava a un concorso direttamente dopo la laurea e poi si entrava nei ranghi ministeriali. Adesso per esempio non è raro che dei nostri architetti abbiano lavorato per studi privati prima di vincere il concorso. Tra i colleghi anziani, c’è chi ha vissuto quella fase entusiasmante degli anni Settanta quando è tornato alla ribalta il ruolo sociale dei musei. Sono ovviamente vicini alla pensione, ma il loro entusiasmo sembra come risvegliato perché vedono che le loro competenze e la voglia di fare trovano finalmente canali per esprimersi. Ho notato invece che il gruppo più difficile da motivare è nella fascia dei miei coetanei, persone di 50-55 anni: tra questi ho notato purtroppo casi di sfiducia, scetticismo e anche pessimismo, come se per loro non fosse importante lasciare un segno. Sono atteggiamenti paralizzanti. Ma naturalmente non bisogna generalizzare. Ciò che mi dà molto coraggio è che i giovani invece sono pieni di entusiasmo, anche il personale di Ales (la società in-house del Ministero attraverso cui abbiamo creato più di 110 nuovi posti di lavoro) si impegnano molto. Anche in questo caso posso contare sulla loro motivazioe e ottimi livelli di conoscenza.

Si dice sempre che i grandi ostacoli sono quelli della burocrazia, dei finanziamenti e quelli imposti dall’ipersindacalizzazione.

Ho capito che con quelli che da una prospettiva imprenditoriale appaiono come ostruzionisti, ovvero i sindacati, si può lavorare, collaborare e creare una comune passione, purché si dia una prospettiva di miglioramento concreto delle condizioni di lavoro, anche aggiungendo nuovi posti. Quando il confronto avviene in una prospettiva di crescita economica porta a risultati solidi, non effimeri. Per quanto riguarda le limitazioni economiche, grazie al rinnovo completo della bigliettazione con l’introduzione delle differenze stagionali di prezzo, non soltanto riusciamo a gestire meglio i flussi del turismo ma incassiamo anche di più. E poi c’è il terzo punto: la burocrazia. La burocrazia è terribile, ma quella italiana non è la peggiore che ho conosciuto. La peggiore con cui ho avuto a che fare è stata in California dove praticamente bisogna avere un gruppo di avvocati per attraversare la strada. Addirittura al Getty dovevamo frequentare dei corsi per imparare ciò che non bisogna fare per non esporsi a rischi legali. L’invito era non fare, per non rischiare: il principio della autotutela portato ad absurdum. Tuttavia la burocrazia italiana non si contraddistingue da quella di altri Paesi per il suo peso, ma per l’incertezza. Il problema di fondo è la quantità di leggi e norme. Puoi anche riempire un modulo e dopo mesi scoprire che non bisognava riempire quel modulo lì ma un altro, oppure che una normativa completamente diversa prevedeva che non si compilasse alcun modulo. Per non parlare del fenomeno per cui determinate incertezze sull’applicabilità di una norma vengono utilizzate come strumenti per una battaglia in realtà condotta su temi completamenti diversi, talvolta imperscrutabili.

Ha sofferto per queste ragioni?

C’è stato un caso molto ripreso dalle cronache: quando per combattere la piaga dei bagarini, sotto il loggiato degli Uffizi ho installato degli altoparlanti che diffondevano messaggi per mettere in guardia il pubblico in fila all’ingresso del museo. Dopo pochi giorni sono stato multato dal Comune di Firenze per «pubblicità non autorizzata” e successivamente anche per «occupazione acustica» del suolo pubblico. Per fortuna abbiamo superato il problema con il Comune, con cui ora abbiamo molti progetti di collaborazione come il Festival cinematografico ormai giunto alla terza edizione. Piace molto ai fiorentini e quest’estate nel cortile degli Uffizi abbiamo organizzato una cinquantina di serate con film gratuiti. Lo cofinanziamo con il Comune e scegliamo insieme i titoli sempre secondo temi e specifici cicli, dedicati all’arte, ai musei nel cinema e ad altro. Il grande vantaggio è la flessibilità: abbiamo 200 posti a sedere, altri 5-600 posti a sedere sotto il loggiato e, se servono, migliaia in piedi.

C’è poi il grande tema della comunicazione con il personale interno, e della sua formazione.

Ora possiamo occuparci anche di questioni non dettate solo dall’urgenza e il futuro punta sul miglioramento, come ad esempio il programma di formazione del personale, un settore che aveva enorme bisogno di maggiori investimenti. Abbiamo iniziato con le questioni fondamentali come corsi sulla normativa antincendio e di primo soccorso, ma ora siamo già al terzo anno in cui ai dipendenti vengono offerti corsi di lingue straniere, con ben cinque opzioni: inglese, francese, spagnolo, tedesco e russo. Ognuno può scegliere, e non partecipa soltanto il personale di sala per comunicare con i visitatori, ma sono iscritti anche coloro che lavorano negli uffici. I corsi sono per giunta utili per mettere in rapporto tra loro i diversi uffici e dipartimenti. Finora hanno partecipato 205 persone, oltre la metà del nostro personale statale. Purtroppo invece i dipendenti che abbiamo tramite la società in house Ales non sono stati autorizzati ad iscriversi dai loro superiori.

Qual è la situazione economica? I proventi di biglietteria sono cresciuti moltissimo.

Gli introiti sono cresciuti del 112%: da 16,1 milioni di euro nel 2014 siamo saliti a 34,1 nel 2018 e quest’anno saranno oltre 35. Quindi cresciamo ancora. Altri proventi importanti ci arrivano attraverso i diritti di riproduzione, gli affitti per le riprese televisive e cinematografiche (abbiamo appena avuto Netflix per il film «Six Underground» con Ryan Reynolds) e le concessioni di ristorazione, per noi molto importante: e infatti stiamo progettando altri servizi per Boboli, dove al momento non c’è nulla, tra cui una gelateria e la riapertura della Kaffeehaus. Ora noi possiamo impegnare circa il 60% dei nostri proventi, mentre il 20% va al fondo di solidarietà per i musei più piccoli o situati in regioni meno favorite dal turismo, soprattutto al Sud (cosa giustissima). Il 17% va infine al Comune di Firenze, secondo l’accordo Bondi-Renzi.

A che cosa destinate il vostro 60%?

Andiamo per priorità. Se ancora in tempi recenti non riuscivamo a produrre autonomamente fondi per quanto ci serviva, ora finalmente riusciamo a sostenere impegni per noi fondamentali, compresi i restauri e le manutenzioni che non erano stati fatti addirittura da decenni. Dedichiamo molte energie anche all’attività e alle pubblicazioni scientifiche, come ad esempio il catalogo completo della collezione Contini Bonacossi e il primo volume mai pubblicato sugli splendidi affreschi a grottesche nei corridoi degli Uffizi. Una trentina di volumi scientifici sono in preparazione: per noi la ricerca è sempre più importante, comprese le conferenze scientifiche aperte al pubblico con cadenza settimanale. Ricerca e formazione sono fondamentali per un museo, rappresentano la sua stessa identità, ne sono il cuore. Inoltre, possiamo destinare una parte dei nostri fondi agli acquisti di opere d’arte che siano in un rapporto privilegiato con quanto già si trova, storicamente, nelle collezioni. Per tenere vivo un museo non si può prescindere dall’aggiornamento e dall’incremento ragionato delle sue raccolte.

Che cosa prevede per il futuro?

Nei prossimi mesi inaugureremo il nuovo allestimento di due sezioni: quella del primo Cinquecento toscano con Andrea del Sarto, Rosso Fiorentino, Pontormo ma anche la pittura emiliana e lombarda che finora è stata messa un po’ in secondo piano nel percorso espositivo. E poi la collezione degli autoritratti, che dal Corridoio Vasariano e dai depositi ritornerà a breve nell’edificio principale degli Uffizi, dov’era esposta dai tempi di Cosimo III de’ Medici fino alla seconda guerra mondiale: occuperà 14 sale al primo piano, e i dipinti saranno allestiti su più registri. Sono ben 2mila opere (ancora non sappiamo esattamente quante riusciremo a esporne), perché è una collezione che non si è mai fermata e continuiamo tuttora a ricevere e ad acquistare opere, comprese molte di donne artiste. La statua del cardinal Leopoldo, il famelico collezionista della famiglia Medici che aveva iniziato a raccogliere gli autoritratti, tornerà al centro di una sala, così come era in origine.

Quali sono i tempi?

Stiamo lavorando a ritmi serrati. Siamo ora sottoposti al decreto del presidente del Consiglio dei ministri della scorsa estate, secondo il quale ogni intervento di carattere architettonico deve essere approvato dalla Soprintendenza secondo procedure complesse che infatti, proprio per la la loro pesantezza, erano state abolite già nel 2001. I tempi si sono allungati, ma per fortuna il dialogo con gli uffici della Soprintendenza è molto costruttivo, per cui posso dire che le prime inaugurazioni potranno avvenire tra la fine del 2019 e la primavera del 2020.

Quali sono i progetti qualificanti del suo nuovo mandato?

Quello principale è sicuramente il nuovo Corridoio Vasariano, per il quale lo scorso febbraio abbiamo presentato il progetto esecutivo e ora Invitalia sta preparando il bando per i lavori che dureranno 18 mesi. Seguirà l’allestimento per il quale sono previsti due spazi commemorativi (uno della distruzione nazista dell’Oltrarno e di una parte del Corridoio, il 4 agosto 1944, e un altro dell’attentato mafioso dei Georgofili, il 27 maggio 1993) e l’installazione alle pareti di iscrizioni greche e romane. Saranno di nuovo visibili anche gli affreschi esterni del Corridoio, staccati nell’Ottocento e restaurati negli anni ’60 e da allora mai più visti. Ci dedicheremo poi al Giardino di Boboli, in particolare al restauro filologico delle fontane, alla ricostruzione delle panchine (alcune mancano da decenni). Agli Uffizi, tra due anni circa saranno pronte le sale della pittura del Seicento dopo Caravaggio e quelle del Settecento fino ad Anna Maria Luisa de’ Medici.

A Pitti presterà più attenzione?

Direi proprio di sì, e infatti in questi giorni, con il progredire del cantiere dei lavori architettonici agli Uffizi, sto trasferendo il mio ufficio a Palazzo Pitti, dove oltretutto sono più vicino alla Soprintendenza che lì ha la sua sede. Nella Reggia abbiamo aperto molte sale chiuse dagli anni Ottanta e altre ne apriremo. Un progetto importantissimo nei prossimi due o tre anni sarà il nuovo Museo delle Carrozze, oggi poco più che un parcheggio. Sarà nel bastione settentrionale in enormi spazi usati fino al 1859 come scuderia e poi come depositi di materiale vario, finalmente sgomberati negli ultimi due anni. Il Museo della Moda e del Costume continua a crescere, con acquisti e donazioni, grazie anche al recente accordo con il Centro di Firenze per la Moda italiana, con Pitti Immagine e con la fondazione Pitti Discovery. Di fatto siamo già il museo nazionale della moda, con collezioni dal Cinquecento al 2019 e con una forte proiezione internazionale. Ma sarei favorevole a un secondo museo a Milano, più concentrato sul contemporaneo.

Eike Schmidt. Foto: Ulisse Albiat per Wikipedia

Carlo Accorsi, 10 novembre 2019 | © Riproduzione riservata

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