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Edgar Calel, «Ru Jub’ulik Achik. Aromas de um sonho»

Photo: Ícaro Moreno. Courtesy Instituto Inhotim

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Edgar Calel, «Ru Jub’ulik Achik. Aromas de um sonho»

Photo: Ícaro Moreno. Courtesy Instituto Inhotim

Dialogo e comunità per decolonizzare: la formula di Edgar Calel

All’Istituto Inhotim, il Parco d’Arte Contemporanea più grande dell’America Latina, l’artista guatemalteco presenta 15 opere

Matteo Bergamini

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Nell’attuale sfida per «decolonizzare» i musei ci sono ancora molte questioni da risolvere, ma l’Istituto Inhotim, il Parco d’Arte Contemporanea più grande dell’America Latina, ci prova con una mostra di lunga durata dell’artista guatemalteco Edgar Calel: un nuovo formato, basato su uno dei modelli di lavoro più antichi.

Con una carriera internazionale già consolidata, rappresentato dalla galleria Mendes Wood DM, Edgar Calel (1987) non crea vere e proprie mostre, ma scambi culturali e di energia. 

La sua ultima produzione è in scena, inaugurata a ottobre e in cartellone fino al 2027, alla Galleria Lago dell’Istituto Inhotim, alle porte di Belo Horizonte, il parco d’arte più grande dell’America Latina voluto dall’imprenditore e mecenate Bernardo Paz, che ha aperto le sue porte nel 2005 e che ha portato a Brumadinho (la città che ospita l’Istituto), tra gli altri, Chris Burden, Cildo Meireles, Tunga, Matthew Barney, Yayoi Kusama, Jorge Macchi, Carlos Garaicoa, Miguel Rio Branco, Claudia Andujar, Doug Aitken, Dominique Gonzalez-Foerst, Hélio Oiticica e Adriana Varejão, i cui padiglioni e opere in sito sono diventati dei veri e propri luoghi di pellegrinaggio per gli amanti dell’arte. Colpito dall’accusa di riciclaggio nel 2017, assolto nel 2020, Bernardo Paz tre anni fa ha donato interamente l’Istituto Inhotim, conservando solamente il titolo di «fondatore benemerito», anche per garantire un futuro autonomo e non dipendente dalla sua stessa presidenza. Oggi il centro, con un nuovo consiglio di amministrazione e di gestione, vede la direzione artistica affidata a Júlia Rebouças, sotto la quale e con la curatela di Beatriz Lemos e Lucas Menezes, è nato il progetto di Calel (come tutti lo chiamano) «Ru Jub’ulik Achik’-Aromi di un sogno», in lingua maya kaqchikel. 

Edgar Calel, in fondo, è uno degli (ancora giovani) artisti latini più interessanti della scena contemporanea, nativo del Guatemala e ancora residente con la famiglia nella città di San Juan Comalapa, a circa due e mezza dalla capitale del Paese dell’America Centrale. E proprio la sua famiglia è parte integrante di una modalità di lavoro strettamente in situ, che si tratti del Brasile o della Norvegia, dove l’artista si pone quasi come il perno per designare, tra i luoghi delle sue soste, una sorta di circolarità infinita.

Edgar Calel, «Ru Jub’ulik Achik. Aromas de um sonho». Photo: Ícaro Moreno. Courtesy Instituto Inhotim

È successo, ovviamente, anche all’Inhotim, dove non vi sono pareti ma terra a guidare il visitatore all’interno del padiglione, per un totale di 15 opere delle quali una dozzina prodotte direttamente a Brumadinho (dove l’artista e la famiglia hanno vissuto per più di quaranta giorni), nell’atelier dell’Istituto. Quasi abolita la questione del trasporto delle opere, delle dogane e delle casse, se non per il grande arazzo cucito in casa Calel, a San Juan, e per buona parte dell’attività della famiglia dell’artista, che produce le tradizionali candele votive di San Simone, entità religiosa nata dal sincretismo tra culti Maya e Cristianesimo, a cui la maggior parte dei guatemaltechi sono devoti per il suo essere una sorta di figura «libera» da ogni preconcetto e le cui intercessioni sono offerte di birra, sigarette o dolci. 

Quel che Calel ha realizzato è stata una vera e propria immersione-residenza con la comunità di Brumadinho, quasi incorporando i punti di contatto che Brasile e Guatemala mantengono in comune: dallo sfruttamento delle terre e delle risorse all’imposizione colonialista di una lingua «straniera», dalla conseguente decimazione di popolazioni originarie alle epoche più recenti di dittatura e, sempre, di cancellazione delle minoranze.

«Essere qui, in questo momento, e in mezzo a un gruppo di persone che fino a poche settimane fa non conoscevo ma che ora posso chiamare famiglia fa parte del mio lavoro, lo stesso che sviluppo da sempre con la mia propria famiglia e che da Comalapa si è esteso verso molti altri territori. Per me, il processo è importante tanto quanto mettere in atto un lavoro collaborativo: nulla si può fare se non si è in comunicazione, se non si sta chiedendo all’altra persona se sta bene o meno, nel senso più profondo della questione», racconta Calel, quasi uno sciamano moderno, durante i momenti di apertura della sua «Ru Jub’ulik Achik». Eppure l’arte, per lui, non è la panacea di tutti i mali, anzi: «Prima di iniziare a realizzare un’opera, è importante risolvere anche altri problemi, che con la produzione a volte non hanno nulla a che vedere: la priorità resta sempre il dialogo», sottolinea l’artista. 

L’arte, insomma, non è il risultato, ma uno spazio di trasferimento, l’area di condivisione e preservazione di memorie: famigliari o popolari, ma sempre in una posizione di circolarità, di geografie aperte, di possibilità di interazione. E nel frattempo, dopo un breve pit-stop nella sua San Juan Comalapa, Calel è già volato a Taipei, in occasione della sua partecipazione alla 14ma Biennale, quest’anno intitolata «Whispers on the Horizon». Ecco il metodo «vecchissimo»: il viaggio e l’approssimazione all’altro come le uniche possibilità per «entrare» laddove le comuni pratiche non arrivano o, per dirla con Júlia Rebouças, nel tentativo di creare un museo decoloniale cercando di mettere in atto pratiche concrete e lasciando un po’ da parte teorie a loro volta altamente divisive. 

Edgar Calel, «Ru Jub’ulik Achik. Aromas de um sonho». Photo: Ícaro Moreno. Courtesy Instituto Inhotim

Matteo Bergamini, 30 ottobre 2025 | © Riproduzione riservata

Dialogo e comunità per decolonizzare: la formula di Edgar Calel | Matteo Bergamini

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