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Installation view della mostra di Daniele Milvio allo Spazio Amanita di New York

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Installation view della mostra di Daniele Milvio allo Spazio Amanita di New York

Daniele Milvio a New York

Lo Spazio Amanita ospita la mostra dell’artista romano composta da opere ricche di spunti di riflessione

Luciana Fabbri

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«In una valle vicino a Ovada, raggiungibile solo attraverso uno sterrato di diversi chilometri dove un gruppo di fanatici testa i propri fuoristrada, passato un ponte su un lago artificiale ricco di salmerini ma dal colore sinistro, si trova una radura, con due case e un capannone che un tempo traboccava di pelli di serpente, a guardia del capannone dei cani meno cattivi del previsto».

Così l’artista Daniele Milvio descrive il luogo dove ricava il materiale per i suoi quadri in pelle di serpente, esposti nella mostra intitolata «Red Herring» presso lo Spazio Amanita. In corso fino al 10 marzo, la mostra presenta una serie di quadri realizzati in pelle di serpente e cinque sculture in bronzo. La galleria, aperta nel 2021, ha sedi a Firenze e New York e si occupa di promuovere artisti emergenti con un’attenzione particolare all’arte italiana.

«Red Herring» vuole dire depistaggio. È una traduzione inglese dell’espressione latina «ignoratio elenchi» che implicava l’argomentazione di un tema alternativo rispetto a quello principale, mancando il punto apposito per aggirare l’avversario. Entrati in galleria uno dei primi quadri è «Porta Chiusa», una grande tela composta da pelle di serpente bianca tesa in strisce orizzontali. La pelle di serpente crea una sensazione di sospetto e richiede una maggiore attenzione. I quadri, o serpenti, come li chiama l’artista con una sineddoche, attirano lo spettatore con le loro diverse dimensioni, composizioni e colori a evidenziare l’interesse per sensuali accostamenti cromatici.

Milvio vuole creare opere «a prova di pensiero penetrante, troppo colore, troppi riflessi, un reticolo, quello delle squame, che intrappola lo sguardo in una quantità di rimandi asfissianti». Nonostante l’apparente astrazione dei quadri, i titoli aprono a una serie di rimandi culturali eterogenei. Per esempio «La capostipite di sé», il trittico del 2023 di colore rosso e nero che ricorda un tramonto sul mare, richiama la figura storica di Caterina Marcenaro, una donna autoritaria quanto illuminata a cui si deve la creazione del sistema dei musei civici di Genova, oggi Patrimonio dell’Umanità. Un’altra opera intitolata «188 cm», come l’altezza dell’artista, è composta di pelle di pitone in strisce verticali e costituisce una sorta di autoritratto nella forma di una celebre «zip» di Barnett Newman.

Esposte, oltre ai dipinti, troviamo cinque sculture, in cui dei mappamondi illuminati sono in precario equilibrio su dei «moci» realizzati in bronzo patinato.
L’utilizzo di materiale destinato all’uso commerciale per i suoi quadri e la decisione di aggiungere alle sculture in bronzo la funzione di lampade evidenzia una scelta di tipo funzionale, piuttosto che estetica o di lusso, che sembra suggerire una riflessione più ampia sulle nostre scelte di consumo. Che cos’è che stiamo comprando, quali sono i motivi che ci spingono a farlo? Qual è il ruolo dell’opera d’arte e la nostra relazione rispetto ad essa? «Incerti tra il biblico e il pagano non riusciamo a provare empatia per gli esseri di cui è piena la mostra», scrive l’artista.

Questi sembrano suggerire un’immagine ironica della condizione umana, sempre in bilico tra il desiderio di elevazione verso l’alto e la reale vita quotidiana, ridicola e banale (rappresentata da uno strumento utilizzato per pulire i pavimenti).

Uno dei riferimenti letterari per l’artista è La Società Opulenta (1997) di John Kenneth Galbraith. L’economista americano analizzò come l’economia e la società industriale moderna procedessero verso una direzione in cui l’unica cosa che conta sono gli indici di consumo, al punto che i cittadini non vengono quasi più considerati persone portatrici di idee e di valori, ma solo consumatori, causando sprechi sociali e ricadute estremamente negative sull’ambiente. La quantità asfissiante di rimandi sembra riprodurre la stessa confusione percettiva e disorientante creata dalla sovrabbondanza di contenuti culturali proposti dal mercato. Risvegliando le nostre coscienze intorpidite, le opere di Milvio ci invitano a riflettere sulla responsabilità delle nostre azioni e sul reale costo delle nostre scelte di consumo sull’ambiente e sulle creature che condividono il nostro pianeta.

Installation view della mostra di Daniele Milvio allo Spazio Amanita di New York

Luciana Fabbri, 19 febbraio 2024 | © Riproduzione riservata

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Daniele Milvio a New York | Luciana Fabbri

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