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Luciana Fabbri
Leggi i suoi articoli«Megalomanie» è il titolo della personale del trio artistico Canemorto, aperta fino al 18 luglio nella Fondazione Nicola Del Roscio, nel centro storico di Roma. Situata in un palazzo degli anni Venti, l’entrata in Fondazione è preceduta da imponenti colonne in stile corinzio che trasmettono una sensazione di ordine, grandiosità e potere. Entrando nella mostra, la prima opera che incontra il visitatore è «Il Quotidiano dell’Arte». Similissimo, nella grafica e nel formato a «Il Giornale Dell’Arte». «La Scomparsa dei Canemorto», si legge sul titolo. Gli artisti si sono appropriati del periodico dell’arte più diffuso sul territorio nazionale, reinterpretandone minuziosamente i contenuti, i loghi e persino le pubblicità, e coinvolgendo un gruppo di operatori del settore: galleristi, curatori, critici per raccontare la mostra.
In toni sensazionalistici, viene raccontata la storia di un incidente inaspettato, che ha ribaltato le premesse della mostra. «Megalomanie» doveva includere le dieci stampe calcografiche più grandi mai realizzate, con cui Canemorto mirava a entrare nel Guinness World Record. Ma un’esplosione violenta, avvenuta qualche giorno prima dell’inaugurazione, ha gravemente danneggiato le opere: le matrici di alluminio si sono accartocciate, le prove di stampa bruciate e degli artisti si è persa ogni traccia. Nonostante l’incidente, i curatori Davide Spinelli e Carlotta Pellicciari hanno deciso di aprire la mostra al pubblico, optando per una soluzione concettuale: «Presentare una mostra post disastro, un viaggio attraverso i reperti, i frammenti sopravvissuti e soprattutto l’assenza». Non è chiaro se si tratti di una messa in scena, o ci sia un fondo di verità in questa vicenda.
Canemorto è un trio di artisti italiani, provenienti dalla Brianza. «Indossano maschere, parlano un idioma sconosciuto e onorano una divinità canina chiamata Txakurra». La loro particolarità è quella di lavorare a ogni progetto a sei mani, in maniera empatica. Partendo dalla pittura, esplorano ogni tipo di media, senza distinzioni di gerarchia: sculture, incisioni, video e tatuaggi. Celebri sono le loro performance e installazioni dissacranti, come la «Pescheria da Canemorto» o «The Painting Race», in cui la dimensione ludica e partecipativa si combina con una messa in scena satirica delle dinamiche di potere che governano il mercato dell’arte.
Entrando nel salone principale a pianta ovale, la mostra si svela in un colpo d’occhio. Allestita come un sito archeologico: al centro, un piccolo cratere; tutt’intorno le lastre di alluminio accartocciate. Sono diventate delle sculture, delle presenze fantasmatiche, dalle cui pieghe si intravedono ancora i disegni incisi. Subito a destra, i curatori hanno incorniciato i frammenti delle prove di stampa, realizzate prima della deformazione delle lastre. In una di queste, un grande volto in lacrime emerge dal profondo della terra, una figura totemica, triste e minacciosa, mentre le figure di tre piccoli uomini si piegano in ginocchio intorno a lui in segno di devozione. I disegni hanno uno stile rudimentale, grezzo, infantile, di forte impatto visivo.

Canemorto, «Il Quotidiano dell’Arte»
Un film proiettato sul muro racconta i retroscena della mostra e le disavventure degli artisti nel tentativo di entrare nel Guinness World Record: in macchina per Roma, in giro con le lastre giganti, alla ricerca degli strumenti adatti per stampare su un formato così anomalo. In una delle scene più esilaranti, provano a inchiostrare le lastre utilizzando il rullo di uno schiacciasassi. Al mito dell’artista come genio creativo si contrappone l’immagine impacciata degli artisti alle prese con problemi pratici, e che compiono azioni assurde, preoccupati per il denaro e il loro status.
Infine, nell’ultima sala sono esposte dieci microstampe, identiche nei dettagli alle lastre monumentali e visibili solo attraverso dei microscopi, disposti sopra un tavolo d’acciaio. Ritrovate misteriosamente all’interno del cratere, la loro esistenza, dice uno scienziato intervistato nel film, resta scientificamente inspiegabile: «Non è possibile, infatti, realizzare delle stampe in quella scala con le conoscenze tecniche conosciute fino ad oggi dall’umanità».
Gli artisti trattano ogni progetto espositivo come un episodio all’interno di una macrostoria surreale in continua evoluzione, in cui si mescolano fatti reali e immaginari.
In «Megalomanie» gli artisti mettono in discussione gli strumenti di comunicazione, lettura e trasmissione dell’arte. All’atteggiamento serioso, le scelte curatoriali sofisticate e l’utilizzo di microscopi scientifici per osservare le opere, si contrappongono le figure grottesche degli artisti, immersi nel loro caotico processo creativo.
I Canemorto sfidano ogni forma di riconoscimento istituzionale. La loro arte affonda le radici nel mondo dei graffiti, con cui hanno condiviso supporti (muri, metropolitane, treni) e attitudini (senza mai chiedere il permesso), ma da cui si sono sempre differenziati con stile ed estetica autonomi. Ma loro pratica artistica emerge anche dal contatto con i mondi delle sottoculture musicali, delle fanzine, delle serigrafie e produzioni indipendenti. Ed è da questo magma sotterraneo, marginale, fatto di sperimentazione e contaminazione tra diversi linguaggi artistici, che emerge una forza dirompente, che rompe le barriere degli spazi istituzionali e stravolge in termini grafici e visivi la comunicazione di massa.
In Arte di Frontiera Francesca Alinovi sosteneva come l’innovazione artistica emergesse ai margini, negli spazi intermedi tra cultura e natura, massa ed élite, e lontano dai confini istituzionali. Così nel 1982 Alinovi descriveva i «kids», i writer delle periferie di New York e delle città occidentali, come autori di «un nuovo alfabeto espanso, pronto a lasciare la strada per invadere i luoghi della cultura visuale del presente… un intercettabile gergo, incomprensibile e subdolo che contrappone al linguaggio funzionale universale dei media, la lingua dell’affetto, dell’arte e del complotto».
L’insistenza sull’energia del gesto (corporeo, rituale, affettivo) avvicina il lavoro di Canemorto a quello di Cy Twombly, dove il segno diventa scrittura emotiva, un’urgenza interiore. E ogni tentativo di lettura resta aperto, senza risposta univoca, in continua trasformazione.

Una veduta della mostra «Megalomanie» di Canemorto alla Fondazione Nicola Del Roscio. Photo: Livio Sapio. Courtesy Fondazione Nicola Del Roscio