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Matteo Cocci
Leggi i suoi articoliTales of the Wounded Land (2025), presentato in anteprima mondiale a Locarno 78, dove si è aggiudicato il Pardo per la miglior regia, nasce nell’ottobre del 2023 quando i primi bombardamenti israeliani colpiscono il sud del Libano e il regista franco iracheno Abbas Fahdel, che in quelle zone abita con la moglie Noor e la figlia piccola, decide di riprendere l’avvenimento, senza sapere che da quei filmati sarebbe successivamente nato il suo ottavo lungometraggio.
Durante i 15 mesi di conflitto Fahdel continua ad accumulare materiale filmico, documentando le esplosioni, l’esodo verso il nord del Paese, fino al rientro a casa, o a quello che ne era rimasto, dopo il cessate il fuoco. Il tutto raccontando il dramma di un Paese, il Libano, con l’obiettivo fisso sul proprio nucleo familiare, e scegliendo consapevolmente di non mostrare gli aspetti più crudi: “Credo che non tutto sia filmabile. Penso che di fronte ad alcune cose, come la morte e il pianto, il cinema debba conservare un certo ritegno. Si può mostrare però la distruzione, e lasciare che lo spettatore immagini le conseguenze sulle vite delle persone”, racconta il regista al pubblico di Locarno. Il film è prodotto interamente dal regista, che già in diversi dei suoi ultimi lavori aveva rinunciato alle numerose limitazioni che una co-produzione, e più in generale una troupe composta da più persone (nei lavori di finzione di Fahdel, fino a 50), impone sui ritmi e sulle scelte di lavorazione. Questo in un’ottica che predilige nettamente il potere evocativo della realtà, in quanto tale, rispetto a qualsiasi forma di costruzione fittizia del racconto: “La realtà sarà sempre più ricca della finzione. Nessun attore potrà mai garantire lo stesso grado di autenticità di chi si trova a vivere determinate situazioni sulla propria pelle”, afferma lo stesso cineasta.
Si potrebbe dire, nel caso di Tales of the Wounded Land, che la sceneggiatura, se così si può definire, nascesse spontaneamente via via che gli eventi si manifestavano, scritta da una mano invisibile che appartiene alla pura realtà. Tiene tuttavia a precisare Fahdel, durante la cerimonia di premiazione, di come la messa in scena di questo film non sia affatto dettata dal caso, ribadendo come anche la forma documentaria, che rispetto alla finzione dovrebbe affrontare il reale con un un numero minimo di filtri, non possa prescindere da una sensibile attenzione verso ciò che rientra e ciò che invece viene escluso dallo sguardo della macchina da presa. A legare insieme i diversi momenti del film, alcuni versi composti dallo stesso regista durante i tempi delle riprese, che in questo caso coincidevano con quelli della sua vita: “Durante la guerra sentivo il bisogno di esprimere le mie emozioni, cosa che non potevo fare mentre filmavo, quindi scrivevo poesie. Successivamente, durante la fase di montaggio, mi sono reso conto che ogni tanto il racconto necessitava di fermarsi e fare delle pause. Ho quindi iniziato a inserire degli stacchi di montaggio completamente neri, ma non ero soddisfatto. Amando la letteratura tanto quanto il cinema, ho pensato che alcuni estratti dalle poesie scritte durante la guerra potevano rendere questi brevi momenti di pausa più godibili”, racconta Fahdel.
Tales of the Wounded Land è la storia di una famiglia e al tempo stesso di un’intera comunità. Per riflettere questa ambivalenza, la regia di Fahdel alterna scene di vita quotidiana, seppur calata nel devastante e devastato contesto della guerra – l’innocenza e l’inconsapevolezza della figlia di fronte alla drammaticità degli eventi aiuta a sopportarne il peso durante tutta la durata del film –, con sequenze che mostrano momenti straordinari, come le cerimonie che accompagnano i funerali dei caduti. Le prime sono riprese da vicino, con attrezzature che includono macchine professionali ma anche lo smartphone – in proposito Fahdel sottolinea la straordinaria accessibilità che le nuove tecnologie consentono nel girare un prodotto audiovisivo con pochi mezzi –, quest’ultimo utile a catturare con velocità gli eventi subitanei che contraddistinguono lo scenario bellico; le seconde sono state realizzate grazie a droni e riprese panoramiche, solitamente impiegati cinematograficamente per il forte impatto spettacolare delle immagini che essi producono, ma in questo caso sfruttati per la loro capacità di abbracciare in una sola inquadratura il solenne incedere di un popolo che trova nella celebrazione dei propri morti la sola forza per rialzarsi e immaginare un futuro alternativo al desolante paesaggio di rovine che lo circonda.
Nonostante il credo artistico di Fahdel riconosca un’incontestabile superiorità a tutto ciò che è vero, prediligendo il documentario come supremo strumento di racconto, un elemento che esula dal campo del reale è presente, se non nel film, almeno nelle parole del regista, che accoglie il premio riconosciutogli dalla giuria internazionale con voce che fatica a nascondere la commozione: “Quando filmavo, dimenticavo che una bomba avrebbe potuto cadermi addosso. Era una sensazione magica, avevo l’impressione che qualcosa o qualcuno vegliasse su me e sulle persone che stavo riprendendo, come se la camera mi stesse proteggendo”, confessa Fahdel testimoniando, nonostante tutto, il potere trasformativo che il cinema ha nei confronti della realtà, fosse anche solo nella nostra immaginazione.

Una scena di Tales of the Wounded Land (2025) di Abbas Fahdel
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