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Co-Co Colnaghi

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Anna Somers Cocks

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Konrad Bernheimer, proprietario di una delle più prestigiose gallerie d’arte antica al mondo,  ne ringiovanisce il brand associandosi con gli spagnoli Jorge Coll e Nicolás Cortés. Tra gli obiettivi, la riconquista di un pubblico sempre più invaghito dell’arte contemporanea

 

Quando una famosa galleria, con sufficiente storia da fare essa stessa parte della storia, cambia proprietà, è un momento delicato dal punto di vista del mercato e una questione importante per tutti coloro che sono interessati al patrimonio culturale londinese.

Nel gennaio 2002, subito dopo l’attacco alle Twin Towers, Konrad Bernheimer, mercante di Monaco, acquistò Colnaghi (la lunga storia della dinastia dei mercanti d’arte Bernheimer è raccontata dallo stesso Konrad nel libro Great Masters and Unicorns. The Story of an Art Dealer Dynasty, edito da Hatje Cantz). «Il mondo andrà avanti», disse a se stesso, e aveva ragione; alla catastrofe seguì quello che fu probabilmente il più grande boom di tutti i tempi del mercato dell’arte. Oggi, all’età di 65 anni e dopo essersi reinventato come mercante d’arte almeno quattro volte nel corso della sua vita, avrà gli spagnoli Jorge Coll, 37 anni, e Nicolás Cortés, 45, come soci di Colnaghi (cfr. lo scorso numero del Giornale dell’Arte, p. 42). Katrin Bellinger, titolare con Bernheimer della Colnaghi, ha lasciato la galleria alla fine del 2015.
Bernheimer chiuderà la sua sede di Brienner Strasse a Monaco, pur continuando a lavorare in Germania come mercante privato e consulente. Avrà così più energia e tempo per dedicarsi a Colnaghi, dove resterà presidente. 

In partnership con Konrad Bernheimer, Coll e Cortés stanno assaporando la prospettiva di sfidare il declino nel mercato dell’arte antica, con un mix di entusiasmo, connoisseurship, marketing e tutto il potenziale del mondo digitale. Il catalano Coll e il madrileno Cortés hanno uno staff di 16 membri nella loro galleria di Madrid, che continuerà a operare con il nome Coll & Cortés. Ci sarà tuttavia una stretta collaborazione con l’équipe di cinque persone dell’ufficio Colnaghi, che si trasferisce da Bond Street a uno spazio molto grande ai piani terra e interrato al 26 di Bury Street, a St. James’s, una piccola enclave che ha saputo resistere all’esplosione di negozi di beni di lusso e abbigliamento, dove si trovano ancora molte gallerie d’arte e anche Christie’s.

È stato un gesto simbolico di continuità e volontà di ricerca che li ha spinti a ricollocare la grande e importante biblioteca al centro della galleria. L’archivio invece è stato lasciato nell’edificio costruito ad hoc in Windmill Hill, nel Waddesdon Estate, dove Lord Rothschild, uno degli ex proprietari di Colnaghi dal 1970 al 1981, lo ospita, e dove gli studiosi possono consultarlo agevolmente. Le opere d’arte di Colnaghi restano di proprietà di Konrad Bernheimer: «Non volevo scaricare tutto su di loro, perché hanno già il loro stock», spiega.

Il look della nuova galleria è un moderno classico, uno stile che evita le barriere tra l’offerta e l’appassionato di arte contemporanea, ma non sarà super moderno. «Dopo tutto siamo mercanti di arte antica», afferma Coll.

Konrad Bernheimer e Jorge Coll, com’è avvenuto il vostro primo incontro?

Konrad Bernheimer: La prima volta fu alla Biennale di Roma del 2010. Vidi il loro incredibile entusiasmo per l’arte e l’approccio serio al mercato e decisi di portarli all’European Fine Art Fair (Tefaf) di Maastricht dove fin dal primo anno non mi hanno deluso. Poi, naturalmente, aiuta il fatto di avere una lingua comune, lo spagnolo.

Jorge Coll: Volevamo far parte di Maastricht perché è la rassegna che rappresenta tutto ciò che volevamo essere: professionali e vicino ai curatori dei musei, alla ricerca.

KoB: Sono rimasto molto impressionato anche dall’edizione 2015 di Maastricht, dove Coll e& Cortés hanno creato uno stand spettacolare, con un numero relativamente ristretto di dipinti e sculture, in gran parte spagnoli. Abbiamo cenato nel mio ristorante preferito in città, il Mediterraneo, e alla domanda su quali erano i miei progetti, poiché avevo detto loro che avrei presto compiuto 65 anni e sapevano che Katrin (Bellinger, Ndr) aveva intenzione di smettere, risposi che avrei dovuto cercare la nuova generazione Colnaghi. Sono letteralmente saltati sulle sedie dicendo: «Nosotros estariamos lo suficientemente locos» (Noi saremmo sufficientemente pazzi).

Jorge Coll, come contribuisce ognuno di voi alla partnership?

JC: Penso che a Colnaghi possiamo offrire la nostra forza: amo il team che ho trovato ma abbiamo anche il nostro staff e quando uniremo le forze sarà spettacolare. Nicolás è l’occhio, ha molto talento, e io non saprei come descrivermi, sono quello che insegue fisicamente le opere.

KoB: Credo che siano una coppia perfetta perché Nicolás è un vero genio, ha molto occhio. Anche Jorge ha un buon occhio, ma è l’uomo d’affari. 

JC: Recentemente, ad esempio, abbiamo venduto uno Zurbarán al Detroit Institute of Art; Nicolás ha detto: «Oh, so dove c’è uno Zurbarán». Quando gli ho chiesto dove, mi ha risposto: «L’ho visto otto anni fa, nel corridoio di una casa di campagna nel nord della Spagna». Così abbiamo telefonato ai proprietari per vedere se il quadro era ancora loro: «Se siete interessati a venderlo, vale moltissimi soldi», abbiamo detto. Così lo abbiamo comprato e dopo due anni tutti dicevano che si tratta di uno dei migliori ritratti dell’artista.

Come avete imparato?

JC: Entrambi i miei genitori e quelli di Nicolás erano mercanti di arte antica. Tuttavia, quando abbiamo deciso di lavorare insieme, abbiamo scelto la nostra strada e in prospettiva penso sia stato positivo perché avevamo le nostre idee e non volevamo continuare quello che avevano fatto le nostre famiglie: il modello commerciale in Spagna era molto diverso da quello che abbiamo visto a Maastricht.

Quindi avete tutti e due imparato grazie al contatto con le opere d’arte. Siete andati anche in giro a vedere opere?

JC: Ogni giorno. E andavamo spesso anche nei musei. Non vedevo l’ora che arrivassero le buste di Christie’s e Sotheby’s con il listino prezzi per poterli confrontare con il catalogo. Quando avevo sei o sette anni, mi divertivo già a trovare tesori nei cataloghi. E mi piaceva andare alle fiere. Compilavo i miei listini e ogni giorno chiedevo a mio padre che cosa avevano venduto, ero davvero molto interessato.

Di quale nazionalità sono i vostri migliori clienti?

KoB: Un solido gruppo di tedeschi naturalmente e, per i pezzi più alti, gli americani, i musei americani.

E i vostri?

JC: La stessa cosa, ma con gli spagnoli.

Quali sono i vantaggi di avere uno spazio a Londra?

JC: Non si può affermare che il mercato è a Londra o a New York, il mercato è in movimento. Prendo 140 aerei all’anno. Londra è importante perché è dove tutti vengono una o due volte all’anno ed è molto appetibile anche dal punto di vista fiscale. Londra è la combinazione migliore per trovare arte, seguire le aste e al tempo stesso gestire la propria attività a contatto con diverse comunità.

KoB: A Londra si vede la gente che conta più spesso che in altri posti.

JC: Una cosa importante è che vengono qui con una predisposizione all’acquisto. Riesco a vendere di più ai miei clienti spagnoli qui di quanto non farei in Spagna.

KoB: Ho avuto esattamente la stessa esperienza con i miei clienti tedeschi e in Germania, come in Spagna, ci sono diversi centri. Vedo i clienti di Amburgo o Francoforte o Hannover molto più spesso a Londra che a Monaco.

JC: In Spagna paghiamo una tassa societaria del 30% mentre qui è del 20%. Inoltre, se vuoi vendere qualcosa dalla Spagna agli Stati Uniti, c’è una tassa di esportazione sull’arte antica che può arrivare anche al 30%. In Inghilterra non si paga e fa una grande differenza.

Questo ci porta al rimpicciolimento del mercato dell’arte antica, in parte perché c’è sempre meno arte di valore in vendita e in parte perché questa tende ad andare alle case d’asta, quindi i margini sono ridotti. Ma ultimamente una causa è anche il gap tra il collezionismo di oggi e quello del passato, una situazione che forse è peggiore in Inghilterra e negli Stati Uniti rispetto alla Spagna.

KoB: In Germania è anche peggio; tutti sono contemporanei, contemporanei, contemporanei.

Il grande problema è che in Occidente, soprattutto in Europa, la conoscenza della religione è molto limitata. Io so che san Paolo è rappresentato con spada e barba, ma se uno non sa neanche chi è san Paolo bisogna partire da zero.

KoB: È lo stesso con qualsiasi scena delle Metamorfosi. Ci sono poche persone che sanno di che cosa si tratti, ma non penso sia molto importante se a qualcuno piace il quadro come immagine, il volto umano, i colori e così via.

JC: Non vogliamo che la gente abbia paura di venire da noi perché si sente imbarazzata dalla mancanza di conoscenza. Basta voler iniziare. Per questo non penso che non conoscere l’iconografia sia un problema. La cosa bella dell’arte antica è che non si conosce mai tutto; si continua a imparare ogni giorno. Quando vedo trenta Fontana nella stessa fiera, capisco che ha una sorta di magnetismo, ma a un certo punto è stato detto tutto. Sono facili da identificare e forse è questo che fa dire alla gente: «È un Fontana, vale 3 milioni».

Eccovi quindi, Coll & Cortés, a remare controcorrente. Quali opportunità vedete?

JC: Quando vendiamo opere d’arte antica, abbiamo bisogno che le persone capiscano quello che stanno acquistando: andare in Italia e visitare le città da cui proviene il pittore, visitare i musei. Perché quando si parla di arte antica, non si tratta semplicemente di acquistare, ma di vivere un’esperienza e avere un hobby che ti può dare un piacere infinito. Quindi da un lato dobbiamo lavorare molto con i musei, in modo da avere una base per le vendite, dall’altro dobbiamo cercare di coinvolgere le persone creando esperienze diverse.

Tutto ciò richiede molto tempo.

JC: Sì, ma preferisco avere dieci buoni clienti che passano il loro tempo con noi, perché se non riesci a farli innamorare dell’arte è impossibile avere un vero buon cliente. Lo abbiamo fatto con due o tre persone, che ci sono molto grate perché hanno dato una nuova sfaccettatura alla loro vita.

Di quale periodo vi occupate?

JC: Dal Gotico fino al XIX secolo, ma soprattutto dal Rinascimento al Barocco, sia pittura sia scultura. Quando ci siamo avvicinati al mercato della scultura, ho compreso che tutti i mercanti di questo settore sono molto esperti di pittura ma, al contrario, i mercanti di pittura sono molto deboli sul fronte della scultura. Quando inizi a lavorare in entrambi gli ambiti capisci che c’è un rapporto tra di loro. La mostra di Xavier Bray «Sacred Made Real» alla National Gallery di Londra nel 2009-10 è stato un esempio perfetto di questo concetto, con Montañes e Velázquez che lavoravano nella stessa bottega e Cano che era sia scultore sia pittore, per questo penso che se ci si limita solo a un settore si perde qualcosa.   

KoB: Soprattutto nell’arte spagnola.

JC: Quando abbiamo iniziato a vendere scultura spagnola, tutti hanno detto che eravamo matti, che non ne valeva la pena. Ma ora abbiamo acquirenti per questa tipologia, che amano davvero. Quando vado in un museo o da un cliente dico: «Non comprerà niente da me finché non verrà in Andalusia con me, perché per quanto le spieghi le cose, non potrà capire nulla finché non andrà alla Settimana Santa a Siviglia, e a quel punto sarà tutto chiaro in cinque secondi». So che è uno sforzo ma o facciamo così o è finita. L’arte non riguarda solo l’opera e l’artista, ma ha a che fare con la storia dell’epoca e la gente deve poter godere anche di questo.

Pensate che la maggiore importanza conquistata negli ultimi tempi dalla popolazione ispanica negli Stati Uniti predisponga a considerare maggiormente l’arte spagnola?

JC: È quello che pensavamo all’inizio e in effetti c’è stato molto più interesse negli ultimi dieci anni. È una combinazione tra l’aspetto demografico e il fatto che le collezioni spagnole nei musei erano più deboli. I curatori vogliono lasciare il segno in una collezione, e nell’arte spagnola ci sono più vuoti da colmare.

L’arte spagnola è stata sempre fuori dalla scena artistica principale, in parte perché Francisco Franco ha comandato a lungo, ma anche per ragioni che vanno più indietro nel tempo. J.C. Robinson, un occhio superlativo che acquistò molto per il Victoria & Albert Museum negli anni ’50-60 dell’Ottocento, andò in Italia e lì tutti lo rincorrevano dicendo: «Compri il mio Tiepolo, compri il mio Tiziano». Poi andò in Spagna e trovò gente talmente orgogliosa e riservata che quasi non voleva riceverlo, per non parlare di vendergli qualcosa. È ancora così?

JC: Sì, abbastanza. Essendo una società straniera per noi sarà più facile comprare. Persino oggi, se voglio comprare qualcosa a Barcellona, è più facile farlo tramite Madrid, perché possiamo offrire al cliente un servizio più discreto proponendo la vendita fuori da Barcellona.

KoB: Ho scoperto che nel momento in cui ero il «signor Colnaghi», più collezionisti tedeschi erano disposti ad aprirmi le loro porte. La gente pensa: «Se gli vendo quest’opera, non sarà probabile che venga esposta a Monaco, dove in troppi potrebbero vederla, perché la porterà a Londra». È una questione di riservatezza e privacy. Pensano anche che, visto che Londra è il centro del mercato, possono spuntare un prezzo migliore.

JC: Negli ultimi 20-30 anni, gli inglesi hanno avuto un gran successo in Spagna, perché gli esperti in arte spagnola provengono in gran parte dal mondo anglosassone: Peter Cherry, Xavier Bray, Bill Jordan e Jonathan Brown. È difficile trovare studiosi spagnoli riconosciuti a livello internazionale. Voglio lavorare per promuovere l’arte spagnola con i nostri diversi itinerari e viaggi in Spagna.

Che ruolo hanno il mondo digitale e i social media?

JC: Sono il futuro. Sto leggendo molto sulle nuove tecnologie che i musei adottano per presentare le loro collezioni e pensando a come le aste sono diventate così importanti negli ultimi tempi è evidente che il punto di svolta per loro è stato internet, con la possibilità di raggiungere tutti i collezionisti, di proporre cose e di inviare fotografie in tempo reale. Quando internet è arrivato nel mercato dell’arte ha giocato a favore delle aste, perché i mercanti non amano mostrare le loro opere; siamo più riservati, vogliamo creare la situazione giusta.

Konrad Bernheimer, lei è nel settore da più di quarant’anni e l’attività della sua famiglia risale alla metà dell’Ottocento. Come vede il futuro del mercato dell’arte?

KoB: Ci sono cicli di circa dieci anni. Mi sono reinventato quattro volte negli ultimi quarant’anni, e penso che sarà nuovamente necessario in futuro.

JC: Cambia il modo di gestire gli affari, ma non cambia la qualità. Se c’è la qualità, ci saranno anche i clienti.

KoB: Se cambia, cambia in meglio; il tuo occhio diventa ancora più critico. Penso a cosa compravo quarant’anni fa e c’è molto poco che acquisterei ancora oggi. Ora sono molto felice se trovo quattro opere importanti all’anno, invece di trenta o quaranta, perché semplicemente non esistono.

JC: Quello che vedo è che la fascia alta di mercato va meglio ogni anno che passa, per questo uno dei punti fondamentali è come accedere a questo tipo di opere. L’unico modo è avere un brand importante. Quello che stiamo cercando di fare è creare una piattaforma diversa da cui avere accesso a queste opere e ai clienti che le vogliono comprare. Dobbiamo avere prestigio, visibilità e fiducia. La gente deve sapere che vendiamo ai migliori musei del mondo e quali sono i nostri progetti.

KoB: Penso anche che sia molto importante il modo di trattare le persone. La vecchia scuola di mercanti dell’arte è un po’ snob. Non si devono far sentire i potenziali clienti degli idioti, perché così li perdi.

JC: A Maastricht lavoro sempre sulle preview, per questo danno ottimi risultati. Viaggio molto prima della fiera, facendo vedere le opere ai clienti e ai musei, in modo da creare fermento. Cerchiamo di portare i nostri clienti tutti insieme nello stesso momento, in modo che si rendano conto che sta succedendo qualcosa e che devono prendere una decisione. 
A Maastricht nel 2015 abbiamo venduto un Ribera e appena cinque ore dopo qualcuno è venuto da me chiedendomi: «Volevo sapere il prezzo» e ho risposto: «Mi spiace ma è stato venduto». Quando qualcosa è stato venduto vuoi automaticamente comprarlo. Stava per lasciare lo stand e io pensavo che era una situazione spiacevole, perché è difficile trovare un cliente e sentivo che avrebbe davvero comprato il dipinto. Così mi sono ricordato che otto anni prima avevo venduto un’opera simile a un cliente di Madrid, che avrebbe potuto essere disponibile perché la Spagna sta vivendo una situazione complicata. Gli ho fatto vedere una fotografia e gli ho detto che avrei potuto provare a chiamare il proprietario. Mi ha detto: «Proviamo. Questo mi piace anche più dell’altro». Ho telefonato al collezionista e gli ho offerto la stessa cifra che aveva pagato; era felice di vendere e il nuovo cliente mi ha pagato il giorno dopo senza nemmeno aver visto l’opera. Mi ha detto: «Jorge e Nicolás, questa è la prima opera che compro da un mercante; compro solo in asta perché non mi fido dei mercanti». Così gli ho risposto: «Non ha fiducia nei mercanti e ha appena acquistato un quadro per quasi un milione di euro sulla base di una fotografia». Ha ribattuto: «Sì, ma la seguo da un po’ e mi fido di lei. Anche se non ero un cliente mi ha trattato come se fossi il suo miglior cliente, è sempre stato gentilissimo e dopo cinque o sei volte ho capito che posso fidarmi di lei». 
Ora è uno dei nostri migliori amici e gli abbiamo venduto altri tre o quattro quadri. Dipende da come si trattano le persone. Non si può mai sapere.

 

Anna Somers Cocks, 07 gennaio 2016 | © Riproduzione riservata

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