Verifica le date inserite: la data di inizio deve precedere quella di fine
Riccardo Deni
Leggi i suoi articoliIn un’epoca in cui persino il cibo ha smesso di essere nutrimento per diventare rappresentazione, «Casa Fontana» è un’invocazione ironica e disperata a ciò che ci tiene in vita. Con questa mostra, un progetto speciale pensato per i suoi otto anni a Palermo, fino al 13 dicembre Claire Fontaine trasforma la galleria Francesco Pantaleone in una cucina esistenziale, una mensa del reale, un altare domestico per interrogare cosa ci nutre e cosa ci avvelena, dentro e fuori.
Gli ingredienti sono semplici, ma incrostati di ambiguità: un hamburger, una torta, un pasto che forse è un’arma. Come spesso accade nel lavoro del collettivo, la forma è seducente e ingannevole. Due sculture – «Raw» e «Cooked» – ritraggono l’oggetto-simbolo del fast food globale, l’hamburger. Ma non è chiaro cosa contenga, né da dove venga. È carne o sua simulazione? È clone, cellula, pastiche da laboratorio? Un cibo reale o la sua copia sintetica? E soprattutto: cosa dice di noi, oggi, ciò che mettiamo in bocca? L’opera «Is it Cake?» rilancia la domanda in forma di enigma visivo. È un oggetto vero o una torta? È commestibile o è solo un’altra illusione? Ritorna il fantasma del ready-made, ma filtrato attraverso la cultura dei reel e dei meme, in cui ogni cosa può essere tagliata per rivelare un’altra verità sotto la superficie. La scultura, come il cibo, è un pretesto per parlare di confini: tra vero e falso, organico e artificiale, fame reale e desiderio manipolato.
«Casa Fontana» non è una mostra sul cibo. È una mostra sull’industria della fame, sul marketing della nostalgia, sulla distorsione contemporanea di uno dei gesti più primari e intimi: mangiare. Claire Fontaine spinge lo spettatore a vedere nel piatto un campo di battaglia. Quando il cibo diventa trappola per il turista, esca mediatica, arma di controllo o oggetto tossico, allora la “casa” – intesa come spazio di cura, di riparo, di relazione – si trasforma in un luogo ostile. Il titolo stesso è un ossimoro poetico: Casa Fontana. L’acqua, simbolo di vita, associata alla casa, simbolo di protezione. Ma c’è una nota stonata, un cortocircuito sottile. Perché oggi la casa non è più quel luogo sicuro attorno a una tavola imbandita. È Airbnb, è smart working, è consumo ininterrotto. La cucina diventa catena di montaggio, il ristorante una macchina per turisti, il cibo uno spettacolo da condividere e vendere online. Siamo operai a tempo pieno nella fabbrica del quotidiano, umani e non umani inclusi.
E allora dove si trova, oggi, uno spazio di nutrimento autentico? Claire Fontaine risponde senza retorica: nei legami. Nei gesti collettivi, nella possibilità di vivere e lavorare insieme in una città come Palermo, che resta una delle ultime roccaforti contro l’alienazione diffusa. «Casa Fontana» è anche questo: una dichiarazione d’amore per una città che ha saputo accogliere, nutrire, ispirare. Un invito a giocare col cibo – come ci era proibito da bambini – non per irresponsabilità, ma per restituirgli senso, per ribaltare la narrazione.