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Riccardo Deni
Leggi i suoi articoliCi sono nomi che ritornano. Sussurrati tra le pieghe della storia, riemergono come semi dormienti pronti a fiorire in tempi nuovi. Camille, il progetto di Silvia Bigi in mostra da WIZARD LAB, a Milano, è una di queste fioriture tardive: un atto poetico, olfattivo e politico che intreccia memoria, scienza, erboristeria e fantascienza femminista.
Il nome Camille evoca cinque donne realmente esistite, vissute e morte tra il Cinquecento e il Seicento, tutte uccise dall’Inquisizione perché portatrici di un sapere considerato pericoloso: quello delle erbe, del corpo, della guarigione. Camilla da Nirano, Camilla Boccolari, Camilla Caccianemici, Camilla di Bino e Camilla Bellencini Rangoni. Le loro storie sono sopravvissute nei margini degli archivi, e ora riaffiorano sotto forma di un’opera sensoriale che è anche atto di resistenza.
Allo stesso tempo, Camille guarda al futuro distopico immaginato dalla filosofa e docente statunitense Donna Haraway, dove cinque generazioni di simbionti-farfalla, ibridi tra umano e natura, cercano di sopravvivere su un pianeta esausto. È in questa doppia direzione, tra ciò che è stato sradicato e ciò che potrebbe rinascere, che si muove il lavoro di Bigi, in equilibrio tra passato e futuro, terra e sogno.

Silvia Bigi, Camille, 2025. Video installation. Courtesy the artist and WIZARD LAB
Il cuore del progetto è un’edizione olfattiva in cento esemplari. Un tessuto impregnato di fragranze realizzato con Dino Zoli Textile, accompagnato da un’opera video in formato gif. Ma non è solo profumo, è memoria che si respira. La formula nasce dalla collaborazione con ricercatrici, chimici ed erboriste, e si basa su cinque piante: Piantaggine, Edera, Ortica, Malva e Parietaria. Umili, tenaci, presenti ancora oggi nei vuoti urbani, tra le crepe dell’asfalto e i bordi dimenticati delle città.
A ciascuna di queste erbe, l’artista associa una delle cinque Camille. E in questa corrispondenza tra pianta e donna si rivela il senso più profondo del lavoro. Entrambe sono state estirpate, cancellate, perché considerate infestanti, incoerenti, pericolose. Eppure continuano a sopravvivere, sviluppando strategie di adattamento, di propagazione silenziosa, di resistenza collettiva.
Camille non è una mostra da “guardare”, ma un’esperienza da attraversare con tutti i sensi. La macerazione delle piante non è solo un processo chimico, ma un atto simbolico. È lì, nel contatto tra radici e tempo, tra molecole e memoria, che si genera la possibilità di una nuova alleanza: una convivenza non gerarchica tra specie, tra saperi, tra storie. E come le erbe che crescono ostinate dove nessuno le ha seminate, anche le Camille ritornano. Non più come vittime, ma come simboli di un futuro che profuma di resistenza.
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