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Riccardo Deni
Leggi i suoi articoliC’è un museo dentro un topo. E c’è un orecchio, tagliato, che ascolta silenziosamente il brusio della cultura di massa. Dall’alto dell’ottavo piano della Torre di Fondazione Prada, a Milano, dal 18 settembre 2025 si apre un insolito dialogo tra generazioni e immaginari, tra Claes Oldenburg e Alex Da Corte. È qui che, per la prima volta insieme, prendono posto i due «Mouse Museum»: l’originale (1965-1977) di Oldenburg e la sua variazione più recente, «Mouse Museum (Van Gogh Ear)» (2022), firmata da Da Corte.
Un confronto che è anche una mappa. Una traccia dentro il grande atlante delle visioni che «Atlas», il progetto espositivo permanente della Fondazione, continua a comporre piano dopo piano, stagione dopo stagione. Una mostra che non espone solo oggetti, ma visioni del mondo, filtrate attraverso lo sguardo ironico, malinconico e affilato di due artisti capaci di leggere il presente con il linguaggio dell’assurdo.
Il «Mouse Museum» di Oldenburg, prestato dal mumok di Vienna, è un’opera-mondo. Una struttura che ricalca la forma di un topo geometrico - o forse una cinepresa, o una maschera - all’interno della quale si snoda una collezione eterogenea di oggetti. Giocattoli, modellini, frammenti di consumo raccolti e mostrati senza gerarchie. È la risposta personale dell’artista svedese naturalizzato americano all’arte e alla cultura degli anni Sessanta, quella dei supermercati e dei fast food, della pop art e dei primi media di massa. Una Wunderkammer postmoderna, in cui l’arte non si eleva sopra il quotidiano, ma vi si tuffa con gusto e ironia.

Alex Da Corte, Mouse Museum (Van Gogh Ear)
Da Corte, nato nel 1980, ne raccoglie il testimone trasformando la struttura in un gesto più intimo e spiazzante. Il suo «Van Gogh Ear» è un museo mutilato, un autoritratto che mescola memoria e cultura pop, trauma e tenerezza. All’interno, espone i suoi feticci personali: una bacchetta di Harry Potter, un bicchiere da beer pong, utensili di plastica, il volto in schiuma di Marcel Duchamp. Oggetti comuni, ma carichi di significato, che insieme costruiscono un racconto visivo sulla formazione di un’identità, sulla memoria affettiva degli oggetti e sull’inevitabile teatralità dell’io.
La mostra non è solo un omaggio, ma una riflessione stratificata sull’arte come archivio personale, come luogo in cui si conserva non ciò che è importante, ma ciò che ha significato. Oldenburg e Da Corte non collezionano capolavori, ma resti del quotidiano; non esibiscono certezze, ma frammenti da interrogare. Entrambi, in fondo, costruiscono musei per sopravvivere al rumore del mondo, per dare forma - e magari anche senso - alla caotica bellezza del consumo. Così, tra un nodo di fili, un orecchio mozzato e un Topolino trasformato in architettura, il visitatore si scopre esploratore di una geografia affettiva e surreale. In questo doppio museo, le cose parlano. Ma a bassa voce, come i sogni.