Image

Pro Arte, il primo Padiglione della Biennale di Venezia nei Giardini, dove fino al 1905 gli artisti esponevano insieme

Image

Pro Arte, il primo Padiglione della Biennale di Venezia nei Giardini, dove fino al 1905 gli artisti esponevano insieme

Biennale di Venezia. Il dilemma è: artista dell’anno o effetto macedonia?

Lo spazio alle Tese (1.200 metri quadrati più 900 esterni) è molto grande, eccessivo per un solo artista. Dev’essere evitato l’effetto «mostra mercato», di fiera campionaria nazionalpopolare come fu in origine (748 artisti nel 1936, 276 nel 1978). Fino alla provocazione di Sgarbi nel 2011

Image

Franco Fanelli

Leggi i suoi articoli

Mancava ancora la firma del ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano e già il suo sottosegretario Vittorio Sgarbi, nel momento in cui annunciava che il curatore del Padiglione Italia alla prossima Mostra di Arti Visive della Biennale di Venezia sarebbe stato Luca Cerizza con l’artista Massimo Bartolini, lanciava la sua offensiva. «Sono preoccupato che il Padiglione possa essere ostaggio di una visione intellettualistica, per questo ho detto che non mancheremo di seguire il curatore, proponendo poi un ulteriore segmento legato al fumetto, ha dichiarato al nostro giornale. In questo senso il direttore generale che abbiamo appena nominato, Angelo Piero Cappello, farà sì che quella del curatore non sia un’unica voce in Biennale. Ritengo che il bando di selezione, che fissa a tre il limite degli artisti per il Padiglione, sia un errore».

Come poteva, del resto, un progetto del genere incontrare il favore di Sgarbi, che nel 2011, in qualità di curatore, fece esporre nel Padiglione Italia oltre 200 autori? Li aveva scelti in parte lui, ma soprattutto un vasto comitato formato da scrittori, poeti, architetti, giornalisti e qualche critico. Ottenne, forse involontariamente, un risultato: quello di rivelare la sostanziale estraneità (o ignoranza) dell’intellighenzia nazionale (si trattava in effetti di nomi di tutto rispetto) riguardo ai linguaggi della contemporaneità, se non, spesso, un cattivo gusto tanto insospettato quanto diffuso tra coloro che pretendono di dare lezioni di stile e di cultura. Molti, tra gli artisti, gli amici degli amici. A Venezia, così, fior di dilettanti ebbero la possibilità di esporre accanto a nomi celebrati.

«Sgarbi si presentava come l’alfiere degli esclusi dal complotto dell’arte contemporanea», ricorda Paolo Baratta, all’epoca al suo secondo mandato come presidente della Biennale, nel suo libro «Il Giardino e l’Arsenale. Una storia della Biennale» (Marsilio, Venezia 2021). Il titolo del padiglione era quanto mai eloquente: «L’Arte non è Cosa Nostra». «Il padiglione ricevette giudizi di diversa natura […], continua Baratta. Vi fu chi lo lesse benevolmente, come il sottoscritto, che lo considerò un possibile esercizio ironico sulla nostra società […]. Si poteva pensare che fosse l’inizio di un’analisi critica sui rapporti tra la società italiana e l’arte contemporanea». Le eminenze grigie del mondo curatoriale si stracciarono le vesti. Undici anni dopo, quando nel 2022 scelse come unico artista Gian Maria Tosatti, il curatore Eugenio Viola spiegò che «avere un solo artista significa presentarsi con una visione univoca e “secca”, così come sono abituate da tempo a presentarsi le altre Nazioni. È un voler equiparare la partecipazione italiana alle altre».

A ogni Nazione un suo padiglione
Nata nel 1893 (prima edizione nel 1895), secondo lo schema dei Salon, con un’unica sede, visto il successo ben presto riscosso la Biennale si sviluppò in una struttura, anche architettonica, più estesa e suddivisa per partecipazioni nazionali, come si usava nelle Esposizioni Internazionali. La storia dei padiglioni nazionali, riconosciuti come tali anche in virtù di una sede ben identificabile, inizia nel 1907 e il primo a dotarsi di una propria «casa» sul viale d’ingresso dei Giardini Napoleonici fu il Belgio; nel 1909 fu la volta di Gran Bretagna, Germania e Ungheria; nel 1912 seguirono Francia e Svezia, nel 1930 gli Stati Uniti. Nel 1932, il primo Palazzo delle Esposizioni (o Pro-arte) originariamente progettato da Enrico Trevisanato, dove sino al 1905 gli artisti di ogni Paese esponevano insieme, diventa il Padiglione Italia, come indicava l’insegna apposta sulla nuova facciata (rimasta tale) di Duilio Torres.

Effetto macedonia
Nel loro libro «Storia della Biennale» edito da Electa nel 1982, Paolo Rizzi ed Enzo Di Martino raccontano di rappresentative italiane ipertrofiche, pompieristiche e di retroguardia, di commissari preposti alla selezione e agli inviti sotto la continua pressione di poteri critici o politici, non esclusi quelli della città che la Biennale l’ha creata. E, ammettiamolo, l’effetto macedonia (indigesta) nel Padiglione Italia, nella pretesa di pervenire a un pluralismo espositivo, si è presentato più volte in un passato non così remoto. Nel 1936 nel Padiglione Italia esposero 748 artisti (erano i tempi del «popolo di poeti, artisti, eroi ecc.») per poi cominciare a decrescere, anche se ancora nel 1978 erano 276.

Per molte edizioni il grande padiglione continuò a ospitare una nostra rappresentativa nazionale, più o meno numerosa a seconda dei commissari/curatori. Nel 1988, ad esempio, un’équipe curatoriale composta da Guido Ballo, Achille Bonito Oliva, Giovanni Carandente, Roberto Tassi e Pier Luigi Tazzi dedicò quasi l’intero Padiglione a 19 artisti, ciascuno con una sala personale; nel 1993 Achille Bonito Oliva, con «Opera Italiana», presentò una sessantina di artisti; nel 1995, nell’edizione del centenario curata da Jean Clair, erano in 19. Poi il numero cominciò a calare (nel 1997, ad esempio, Germano Celant si limitò, in una porzione del Padiglione, a Cattelan, Spalletti e Cucchi) sino a che, nel 1999, Harald Szeemann scatenò un putiferio «abolendo» il Padiglione Italia anche come settore identificabile all’interno del percorso. Il Leone d’Oro come miglior padiglione nazionale assegnato alle cinque artiste italiane invitate nella mostra centrale (Paola Pivi, Bruna Esposito, Monica Bonvicini, Grazia Toderi e Luisa Lambri) ebbe il sapore di una toppa a una situazione imbarazzante.

Il nuovo corso con Gianelli
Si dovette però aspettare sino al 2007 perché l’Italia avesse la sua attuale sede in un vasto edificio all’Arsenale. La prima curatrice del nuovo corso, Ida Gianelli, puntò sulla coesistenza degli opposti, scegliendo Giuseppe Penone e Francesco Vezzoli. Due anni dopo fu la volta del duo Luca Beatrice-Beatrice Buscaroli, che riportarono il numero a 20. Già detto del «Padiglione Sgarbi» del 2011, il «ritorno all’ordine» venne celebrato con la nomina, nel 2013, di Bartolomeo Pietromarchi, all’epoca direttore del Macro di Roma, scelto da una giuria di nomina ministeriale su sei candidati cui era stato chiesto di formulare un progetto.

Il Padiglione Italia che, ricordiamo, ha un commissario (ruolo ricoperto in modo stabile dal direttore generale Creatività Contemporanea del Ministero) e un curatore, nominato di anno in anno dal ministro della Cultura attraverso una procedura per selezione pubblica, occupa 1.200 metri quadrati più 900 di spazio in esterno. Il curatore ha dunque a disposizione una superficie e una cubatura considerevoli. Il Padiglione degli Stati Uniti ai Giardini, ad esempio, ha «solo» 315 metri quadrati; la Germania 440. Metrature dunque più agevolmente gestibili da un solo artista. Pietromarchi optò per una mostra in stile Kunsthalle attraverso sette abbinamenti per temi o affinità. Il tema della memoria e della storia scandiva il Padiglione curato da Vincenzo Trione nel 2015; il curatore sfruttò la possibilità di modificare architettonicamente l’interno dell’edificio, offrendo a ciascuno dei 15 invitati la possibilità di allestire il proprio lavoro in uno spazio distinto dagli altri. Un’altra soluzione fu quella intrapresa nel 2017 da Cecilia Alemani, che si affidò a tre artisti, Adelita Husni-Bey, Roberto Cuoghi e Giorgio Andreotta Calò, i quali, soprattutto gli ultimi due, operarono in chiave decisamente monumentale e spettacolare. Nel 2019 Milovan Farronato utilizzò, ispirandosi a uno scritto di Italo Calvino, la simbologia del labirinto per costruire un percorso architettonico scandito dalle opere di tre artisti di diversa poetica (Enrico David, Chiara Fumai e Liliana Moro). Lo scorso anno Gian Maria Tosatti, selezionato da Eugenio Viola, sfruttò la sua esperienza di scenografo.

Che cosa deve essere un padiglione nazionale
In ogni caso, non è una questione di numeri, ma di due visioni radicalmente diverse di ciò che debba essere un padiglione nazionale in una Biennale di Venezia. Quella di Sgarbi fa capo all’antico modello, che perdurò comunque sino agli anni Novanta, di occasione e luogo per celebrare attraverso un’ecumenica molteplicità di ricerche il «genio italiano». Oggi che le Biennali proliferano in tutto il mondo, complice la globalizzazione del mercato dell’arte contemporanea, i padiglioni nazionali, dando spesso spazio a piccoli Paesi decentrati rispetto al circuito dominante del contemporaneo, sono per Venezia uno straordinario punto di forza.

Con tutto che le più accanite rivali della Biennale di Venezia non sono le altre Biennali, bensì le più potenti fiere d’arte contemporanea. Le stesse fiere, tra l’altro, cercano di darsi un’allure culturale evitando per quanto possibile l’effetto di mostra mercato campionaria e incoraggiando con questo obiettivo l’allestimento di stand monografici e, nel contempo (vedi Art Basel o Frieze), vantano sezioni in cui le gallerie più ricche propongono opere monumentali, cioè «da museo» o «da Biennale». Se nella mostra centrale della Biennale di Venezia non è sempre facile distinguere un nitido progetto curatoriale (e questo spesso la avvicina alla babele delle fiere) e quando lo si distingue con troppa evidenza la mostra accusa una certa zavorra compilativa, nei padiglioni nazionali oggi i curatori lavorano su molte opzioni. Una è offrire a un artista (non di primo pelo) l’occasione per concepire un importante progetto monografico: nel 2019, ad esempio, la tedesca Anne Imhof colse perfettamente l’opportunità. Un’altra è presentare compiutamente «l’artista dell’anno», «ad honorem» o per ragioni di attualità: gli Stati Uniti lo scorso anno proposero Simone Leigh. Oppure, in genere nei padiglioni di recente annessione, si allestisce una mostra che in sintesi, con pochi artisti, documenti le ricerche in atto in un determinato Paese. In altri casi si coglie l’occasione di un palcoscenico importante e di una mostra molto visitata per denunciare situazioni di emergenza ambientale, sociale, politica.

Dal 2013, i curatori italiani tentano soprattutto di concepire mostre di qualità puntando su artisti professionalmente strutturati con i quali non di rado si è già lavorato e l’obiettivo, tematico e concettuale, è offrire un solido progetto curatoriale (il bando, del resto, lo richiede). Il Padiglione Italia, s’è detto, è dotato di uno spazio decisamente impegnativo, il che rischia di generare un equivoco, lo stesso che per molti anni, quando la sede era la vasta palazzina ai Giardini e dunque era di gran lunga il più ampio padiglione nazionale, portò non solo a un enorme squilibrio numerico a favore dell’Italia rispetto alle altre Nazioni, ma anche a un concetto di mostra ecumenica e collettiva (una specie di Quadriennale bis) assai diversa da quelle che si vedevano negli altri padiglioni.

Rifare del Padiglione Italia una sorta di fiera campionaria nazionalpopolare non profit (come lo fu in un passato anche anteriore all’edizione di Sgarbi) sarebbe un clamoroso passo indietro. Di sicuro (e questo può non piacere a Sgarbi) con la nuova sede e il nuovo regolamento il ruolo, la personalità e la visione del curatore come «regista» giocano un ruolo di primo piano, pari se non superiore a quello degli artisti. Non sappiamo ciò che accadrà al Padiglione Italia da qui all’inaugurazione della Biennale nella primavera 2024. Non è neanche detto che Massimo Bartolini esponga da solo, soprattutto ora che è molto in voga la figura dell’«artista curatore», né che Luca Cerizza, in caso di ulteriori interventi governativi, resti al suo posto e non si dimetta. Sarebbe la prima volta nella storia del Padiglione Italia.

Leggi anche:
Padiglione Italia: smisurato rispetto alle altre Nazioni
 

Franco Fanelli, 17 novembre 2023 | © Riproduzione riservata

Articoli precedenti

In un editoriale Franco Fanelli riflette sulla 60ma edizione dell’Esposizione Internazionale d’Arte: il sottotema non è la guerra, ma la paura

Mentre l’edizione italiana della rivista «Flash Art», nata nel 1967, diventa annuale, abbiamo chiesto al suo fondatore di raccontarne la storia: «Ho visto di tutto, ma nulla è paragonabile ai cambiamenti odierni»

Doppietta della Fondation Louis Vuitton: Monet-Mitchell (675mila visitatori) e Warhol-Basquiat (662mila); Vermeer terzo per un soffio. Van Gogh primo in Italia. La moda sempre più di moda: Schiaparelli decimo posto, McQueen sedicesimo, Cartier diciottesimo

Il progetto «polifonico» del curatore Luca Cerizza e dell’artista Massimo Bartolini è uno spazio abitato dalla musica  e da poche opere di meditazione e di introspezione, i cui poli sono la natura e la spiritualità 

Biennale di Venezia. Il dilemma è: artista dell’anno o effetto macedonia? | Franco Fanelli

Biennale di Venezia. Il dilemma è: artista dell’anno o effetto macedonia? | Franco Fanelli