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Redazione GDA
Leggi i suoi articoliAl di là del ricordare che per legge qualunque reperto emerso dal terreno appartiene allo Stato, l’archeologia non ha di per sé rilevanza pubblica, non deve essere strumento di conoscenza (e di piacere estetico) a disposizione di ogni cittadino e comunità? L’archeologo Giuliano Volpe, già presidente del Consiglio Superiore per i Beni culturali e paesaggistici del Mibact, ha licenziato un saggio che fin dal titolo, Archeologia pubblica, cerca una risposta senza darla per scontata.
Ricordando anche ricercatori lungimiranti e geniali quali Riccardo Francovich in Toscana, Volpe, che è docente di Archeologia all’Università di Bari e di Archeologia tardoantica alla Scuola Archeologica Italiana di Atene, mette sul piatto un principio etico prima che politico: con «pubblica» intende un’archeologia che abbia il bene collettivo come fine primario al pari della conoscenza e della scienza.
Da qui lo studioso, che attinge a una corposa casistica e al dibattito internazionale, pur riconoscendo come la mentalità stia cambiando, preme affinché gli archeologi italiani si confrontino di più con le comunità locali come con chiunque abbia fame di cultura.
Spesso, a suo giudizio, quella volontà di confronto manca. Un esempio? Riprendendo un filo tracciato nel precedente libro Bene nostro, in Archeologia pubblica Volpe stronca le didascalie nei musei frutto di una «sindrome della “fistula plumbea”» concepite per soddisfare gli specialisti ma incomprensibili ai più. Richiamando archeologi come Ranuccio Bianchi Bandinelli, Volpe batte su un tasto: comunicare con chiarezza risponde a un principio di democrazia e al desiderio di sapere di tanti cittadini.
L’archeologo ha fiducia, ed è finanche ottimista, nelle capacità rigeneratrici di tanti colleghi, tuttavia lo preoccupa molto la «distanza andata via crescendo tra archeologi e società» in Italia: «senza l’apporto che solo l’archeologia pubblica può garantire, è l’intera disciplina a rischiare di andare in crisi definitiva, nel mondo globalizzato».
Per quali ragioni? Perché, avverte, la recessione globale non è solo economico-finanziaria, investe tutto e tutti e quella «distanza», se non colmata, potrà rivelarsi letale, impedirà di salvaguardare sia la ricerca sia il lavoro per proteggere quanto rientri sotto il tetto dell’archeologia perché i cittadini avvertiranno la materia, e chi la pratica, come distante, potranno credere che non riguardi tutti noi.
Secondo Volpe un’archeologia indirizzata esclusivamente alle «cose», senza considerare le persone, il tessuto sociale, oggi si traduce in un esercizio di pura scuola e, non ultimo, diventa facile preda di pulsioni nazionaliste che stravolgono il passato a uso propagandistico. È già accaduto.
Archeologia pubblica. Metodi, tecniche, esperienze, di Giuliano Volpe, 258 pp., ill. b/n, Carocci Editore, Roma 2020, € 25,00
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