«Amazon» (2016) di Andreas Gursky © Cortesia dell’artista e Sprüth Magers

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«Amazon» (2016) di Andreas Gursky © Cortesia dell’artista e Sprüth Magers

Andreas Gursky: la realtà è ciò che appare

Alla Fondazione Mast la prima, grande monografica dell’artista tedesco in Italia, allestita per i 10 anni della Fondazione e i 100 anni dell’impresa G.D. SpA

A Bologna, da non perdere alla Fondazione Mast la mostra appena inaugurata «Visual Spaces of Today» di Andreas Gursky (Lipsia, 1955), prima grande monografica e antologica dell’artista tedesco in Italia, curata da Urs Stahel. Fortemente voluta, e a lungo attesa, da Isabella Seragnoli, viene allestita per un’importante occasione: i 10 anni della Fondazione e i 100 anni dell’impresa G.D. SpA, leader mondiale nella produzione di macchine di packaging ad alta precisione.
L’esposizione, che comprende quaranta opere realizzate dal 1989 al 2022, si cala perfettamente nello spazio che le ospita con una naturalezza non scontata, visti i formati delle stampe, che definire grandi è riduttivo. Anche la selezione dei lavori è ben allineata con le tematiche scelte dalla Fondazione: la fotografia dell’industria e del lavoro e la radice etica e culturale che lo accompagna. Gursky ci parla di capitalismo globale, di operato dell’uomo e di impatto sul pianeta che lo ospita. Immagini perfette dove niente è casuale, in cui è bello perdersi, prima nella visione d’insieme e lentamente in ogni dettaglio, in cui nulla è superfluo.
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La realtà è il pretesto da cui partire per prendere coscienza di noi stessi; l’immagine diventa un’affermazione di questa nuova consapevolezza. Forse proprio per questo il grande formato è necessario, cambia lo spazio e sancisce il peso della decisione di Gursky di raccontare proprio quella storia. Una sfida e un’offerta a confrontarci e a colloquiare con l’immagine, a guardarla all’interno della mostra e poi a ritornare su di essa, con l’idea che qualcosa ci sia sfuggito. Certo il titolo dell’opera (una minima indicazione del luogo in cui è avvenuto lo scatto) non aiuta la comprensione.

Nelle opere di Gursky l’uomo non conta mai come individuo, ma come umanità, parte di un ambiente. La realtà è dilatata, trascesa, e l’artista è certamente più interessato a creare un’atmosfera che un racconto. Le sue opere sono composte da molte immagini e richiedono mesi di lavorazione e una lunga postproduzione. In «Rhein II», del 1999, una foto così minimale da apparire assurdamente semplice, Gursky scatta il primo piano, poi l’acqua, poi l’orizzonte. Il fiume diventa un grande muro astratto e ogni dettaglio che toglie purezza ed essenzialità all’immagine viene cancellato.

Apre la mostra «Salerno», una foto del 1990 che segna la svolta nella carriera dell’artista. Il momento in cui decide di mettere da parte gli insegnamenti dell’Accademia della Folkwang Hochschule di Essen, sotto l’influenza di Otto Steinert, così come quelli dell’Accademia di Düsseldorf dove suoi professori erano Bernd e Hilla Becher, per trovare il suo modo di raccontare. Certamente il loro condizionamento persiste nella purezza e linearità dello stile, ma il colore e il grande formato sono due grandi elementi di rottura. Un’immagine densa e complessa dove ogni dettaglio è importante, irrinunciabile: il porto, centinaia di auto parcheggiate pronte a partire, o appena arrivate, i container, le merci, la città sullo sfondo, il mare e la luce del tramonto in Italia.
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Dopo «Salerno» si susseguono, rigorosamente uno per parete, i capolavori più noti dell’artista: tra i tanti, «Bahrain I» (2005), in cui il circuito automobilistico costruito nel deserto, avvolto in un silenzio innaturale, senza alcuna presenza umana e autovetture che lo percorrono, è come un’opera astratta e surreale, e «Amazon» (2016), che raffigura l’interno dell’immenso capannone di Phoenix, con una nitidezza d’immagine impensabile: tutti gli oggetti pronti per la spedizione, in una prospettiva infinita, satura di colore e di dettagli, che turba e inquieta.

Poi, il sito scientifico giapponese di «Kamiokande» (2007), spaventoso e affascinante insieme: un gigantesco container in acciaio composto da infiniti elementi circolari luccicanti, a 1.000 metri sotto terra, dove solo due piccoli gommoni sull’acqua riportato un senso di umano, quasi di poesia, e «Apple» (2020), la sede del quartier generale dell’azienda, progettata da Foster+Partners, luogo di culto laico dei tempi moderni, in cui, su piccoli altari, sono collocati i prodotti del marchio di Cupertino, oggetti del desiderio imprescindibili per tutti noi e divinità della contemporaneità.

Quella che Gursky e Stahel ci propongono è una mostra sull’uomo. Anche quando in «Salinas» (2021) il tema è semplicemente il paesaggio meraviglioso delle saline di Ibiza al tramonto, l’immagine riporta all’essere umano. La natura non è mai incontaminata e l’agire umano è sempre al centro dell’opera, anche solo in una scia lasciata dal passaggio di un aereo nel cielo.
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Andreas Gursky vive e lavora a Düsseldorf, e come dice Urs Stahel, nell’introduzione del catalogo della mostra «è un marchio, un brand che dai tardi anni Ottanta e primi anni Novanta sta per “Grossfotografie”, per la “fotografia di grande formato”, “per “fotografia e arte” nonché per record nelle case d’asta». Nel suo caso, «Rhein II» (nel formato 185,4 cm x 363,5 cm) ha raggiunto 4,3 milioni di dollari da Christie’s a New York nel 2011 (record imbattuto per undici anni).

Non possiamo che rallegrarci che la fotografia venga riconosciuta come arte, come dice Stahel «un’immagine autonoma e non solo una riproduzione meccanico-elettronica della realtà», che i musei decidano di accostarla ai grandi capolavori e che raggiunga le quotazioni dei grandi maestri internazionali. Fino al 7 gennaio 2024, al Mast, vale la pena accertarsene.

«Salinas» (2021) di Andreas Gursky © Cortesia dell’artista e Sprüth Magers

«Bahrain I» (2005) di Andreas Gursky © Cortesia dell’artista e Sprüth Magers

«Salerno» (1990) di Andreas Gursky © Cortesia dell’artista e Sprüth Magers

Chiara Massimello, 03 luglio 2023 | © Riproduzione riservata

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