Verifica le date inserite: la data di inizio deve precedere quella di fine
Ciò che subito colpisce, nella grande mostra «Giorgio Armani. Milano, per amore», che nella Pinacoteca di Brera, a Milano, celebra, dal 24 settembre all’11 gennaio 2026, 50 anni di creatività del grande stilista (1934-2025), è il passo lieve con cui lui, che pure era il re della moda, è entrato in questi saloni carichi di arte e di storia, il suo parlare volutamente sommesso nel dialogo che ha intrecciato con le opere d’arte, e il rispetto, evidente e sincero, che ha riservato loro. Colpisce ma certo non stupisce, se solo si pensa allo stile rigoroso e alla misura che Giorgio Armani ha sempre espresso anche nelle più preziose e scintillanti (e sono tante qui, e magnifiche) delle sue creazioni.
Quella che avrebbe dovuto essere una grande festa per celebrare i 50 anni della Maison di Giorgio Armani, il più milanese (nel senso «antico» della parola, che include la dedizione al lavoro, il perfezionismo, la cura del dettaglio, la professionalità, il riserbo) degli stilisti italiani, si è invece trasformata, tristemente, in una commemorazione, a causa della scomparsa improvvisa di Giorgio Armani il 4 settembre scorso. E la commozione di chi, dal direttore generale Angelo Crespi alla vicedirettrice Chiara Rostagno, a Brera ha lavorato a questo progetto, e di chi lo ha fatto stando al fianco dello stilista (che l’ha seguito fino alla fine), come Anoushka Borghesi, Global communication director, da lungo tempo accanto «al signor Armani» (tutti i suoi lo chiamano così), era palpabile mentre raccontavano le tappe di quest’avventura che ha visto la Pinacoteca di Brera, attraverso Chiara Rostagno, proporre allo stilista un omaggio nel cinquantenario del suo debutto. A un passo, poi, dal 150mo anniversario dell’Accademia di Belle Arti di Brera, di cui la Pinacoteca è, storicamente, una gemmazione: un’istituzione che da sempre forma creativi nelle più diverse discipline artistiche e che nel 1993 gli aveva conferito il titolo accademico per la qualità della sua ricerca.
«Il signor Armani però, ha detto Anoushka Borghesi, ha riflettuto a lungo prima di accettare, perché non si sentiva all’altezza: provava infatti un grande rispetto per il luogo e non voleva che le sue creazioni “disturbassero” in alcun modo le opere d’arte della Pinacoteca». Si spiega così la scelta di creare delle isole al centro delle sale espositive, realizzate con strette passerelle su cui far «sfilare» i suoi abiti proprio come su un catwalk, per non interferire con la visione dei dipinti, e sempre giocando sull’armonia dei colori. Se le oltre 120 creazioni giunte qui da ARMANI/Archivio e «indossate» da manichini invisibili, che ne fanno delle entità quasi astratte, si confrontano ovunque con le opere soprattutto in virtù di assonanze cromatiche (come nella sala dello «Sposalizio della Vergine», 1504, di Raffaello e della «Pala Montefeltro», 1472-74, di Piero della Francesca, dove gli abiti sfoggiano un delicatissimo colore rosato, che fa il paio con il pallido incarnato del terzo capolavoro, il «Cristo alla colonna», 1487-90, di Bramante, o come nella sala di Hayez, dove in pedana sfila un piccolo drappello di completi maschili e femminili, tutti di un blu profondo), oppure si confrontano con i dipinti per affinità materiche, in tre casi il dialogo è più puntuale: accade con la raffinata, essenziale creazione fatta di una lunga gonna e di un impalpabile pull, entrambi di un blu luminoso che rivaleggia con il preziosissimo blu di lapislazzuli del manto della «Madonna con il Bambino benedicente», 1510, di Giovanni Bellini, davanti alla quale è esposta. E accade con l’abito rosso, con tanto di «zucchetto» cardinalizio, posto, come fosse una scultura, nella ricostruzione della cappella (1520-21) di Bernardino Luini, bagnata da una luce speciale che accende di barbagli il color porpora, e poi, verso la fine del percorso, accade con il ritratto femminile di Giacomo Ceruti («il Pitocchetto», 1698-1767), la cui postura si riflette nel manichino che ha di fronte e che sembra conversare con lei, antica dama infiocchettata, indossando un completo grigio giacca e pantalone con un grande scialle di seta blu buttato sulle spalle. Perché se è vero che il suo inimitabile «greige», grigio e beige, era per Armani una costante, la sua tavolozza contemplava (oltre agli immortali bianco e nero) anche colori vivi, smaglianti, ma mai e poi mai chiassosi. E la sfilata dell’ultima sua collezione che domenica chiuderà qui, nel Cortile d’onore, la settimana della moda milanese, a quasi 70 anni dall’unica altra «incursione» della moda in Brera, voluta allora da Fernanda Wittgens, ne sarà la conferma.
Un progetto, questo, che è una grandissima lezione di stile. Del resto, l’obiettivo che Giorgio Armani si è sempre posto con le sue mostre, come ha scritto nell’autobiografia Per amore (Electa Mondadori, 2022), non si è mai fondato sul «soddisfacimento immediato dell’ego del creatore» bensì sul «valore didattico, sulla testimonianza unica, scrive, che puoi offrire al pubblico, ma soprattutto ai giovani creativi, attraverso la tua opera: una sensazione che dura e appaga. Ecco, io sono interessato a questo secondo aspetto». E infatti, l’unico guizzo di vanità in tutta la mostra è la T-shirt del completo, collezione primavera-estate 2004, su cui è stampato, in un colore tenue, il suo volto sorridente. Bello ricordarlo così.

Una veduta della mostra «Giorgio Armani. Milano, per amore» alla Pinacoteca di Brera. Photo © Agnese Bedini, Melania Dalle Grave, Dsl Studio

Una veduta della mostra «Giorgio Armani. Milano, per amore» alla Pinacoteca di Brera. Photo © Agnese Bedini, Melania Dalle Grave, Dsl Studio