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Panjeri Artist’s Union, «Aspinwall House», KMB 2025

Photo: Manuela De Leonardis

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Panjeri Artist’s Union, «Aspinwall House», KMB 2025

Photo: Manuela De Leonardis

Alla Kochi-Muziris Biennale anche Ibrahim Mahama, signore dell’arte secondo «ArtReview»

Il più importante appuntamento di arte contemporanea internazionale dell’Asia del Sud riunisce una settantina di artiste e artisti, sia indiani sia internazionali, giovani o affermati, dislocati in 28 sedi

Manuela De Leonardis

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L’aria profuma di spezie lungo River Road, la strada che costeggiando il mare porta da Fort Kochi a Mattancherry. Qui si erge l’iconico edificio di Aspinwall House, simbolo del passato coloniale della città di Kochi, in Kerala (India), nonché quartier generale della Kochi-Muziris Biennale (Kmb) sin dalla sua prima edizione nel 2012. Giunta al suo sesto appuntamento con il titolo «For the Time Being» (fino al 31 marzo 2026), la Biennale indiana, curata dal noto artista e performer Nikhil Chorpa con Hh Art Spaces e il supporto di Mario D’Souza, direttore dei programmi della Kbf-Kochi Biennale Foundation che ha fondato e organizza la Biennale d’arte, si sviluppa a Kochi (una sede è anche a Willingdon Island) trasformata per l’occasione in un unico grande «organismo» culturale, confermando il suo ruolo di leader tra gli eventi di arte contemporanea internazionale dell’Asia del Sud. «Ci allontaniamo dall’idea della Biennale come evento espositivo unico e centrale, e la concepiamo invece come un ecosistema vivente, in cui ogni elemento condivide spazio, tempo e risorse e cresce in dialogo con gli altri, afferma Nikhil Chopra. A Kochi, storica città portuale, dove un tempo il commercio collegava mondi lontani, partiamo dal nostro sito e dalla nostra regione per avviare un dialogo con le prospettive globali emergenti. Questo radicamento ci permette di resistere alle pressioni del modello convenzionale di biennale come spettacolo finito e di plasmare invece qualcosa che è in evoluzione, reattivo e vivo».

Inclusi gli eventi collaterali, sono 28 le sedi tra ex magazzini delle spezie come Pepper House e Anand Warehouse, nuovissime fermate di water metro, la Camera del Commercio Indiana e anche il tempio Pazhayannur Bhagavathy dedicato alla Divinità Supremam che ospitano i lavori in parte realizzati appositamente da una settantina di artiste e artisti multidisciplinari, sia indiani sia internazionali, giovani o affermati: tra loro Ibrahim Mahama, Hiwa K, Jyoti Bhatt, Nari Ward, Bhasha Chakrabarti, LaToya Ruby Frazier, Mai (Marina Abramović Institute), Adrian Villar Rojas, Faiza Hasan, Cinthia Marcelle, Birender Yava, il collettivo Panjeri Artist’s Union, Malu Joy (Sister Roswin Cmc), Dima Srouji e Piero Tomassoni, Vivian Sundaram, Huma Mulji, nonché le artiste Mónica de Miranda, Zarina Muhammad e la danzatrice Butoh Yuko Kaseri, che hanno realizzato delle performance nelle giornate inaugurali della Biennale ad Aspinwall House. Una Biennale concepita, quindi, come una sorta di corpo collettivo che risponde a un’idea spazio/temporale definita da un proprio ritmo, nato dalla relazione specifica delle singole opere con il contesto in cui dialogano, enfatizzando il concetto di transitorietà sia attraverso l’impiego di materiali locali sia per via del clima caldo umido che prevedibilmente interverrà, più o meno rilevantemente, nel processo di evoluzione delle opere stesse, proprio come nel ciclo vitale di un organismo vivente. Aspetti che anche metaforicamente diventano il riflesso di un territorio di discussione e confronto che affonda le radici nel sociale e politico, sconfinando tra detto e non detto nell’esplorarne limiti e possibilità.

Significativo, in questo contesto, l’ulteriore relazione tra «For the Time Being» e altre piattaforme artistiche di resistenza coinvolte in questo dialogo che attraversa il globo, da Betlemme con Dar Yusuf Nasri Jacir for Art and Research a Panama con il Mam-Museo de Arte Contemporáneo de Panamá, Port-au-Prince (Haiti) con la Ghetto Biennale e in Brasile con la Bienal das Amazônias. L’attraversamento di uno spazio «contaminato» in cui il messaggio di cui la Kochi-Muziris Biennale si fa portavoce è proprio quello dell’amicizia, come dimensione tutt’altro che utopica ma basata sull’empatia, sullo scambio di conoscenze, sul supporto reciproco. Messaggio condiviso certamente dal ghanese Ibrahim Mahama, primo artista africano recentemente nominato dalla rivista «ArtReview» la figura più influente del mondo dell’arte, che a Kochi ha trascorso un mese per la realizzazione della nuova versione dell’installazione «Parliament of Ghosts», lavorando con le comunità locali e conducendo laboratori. Quest’edizione della Kochi-Muziris Biennale si pone anche come una sorta di grande studio d’artista, intercettando l’idea di Wunderkammer o gabinetto delle curiosità e anche di archivio, come si può vedere nelle fotografie in bianco e nero degli anni Trenta di Lionel Wendt, pianista, fotografo, regista e critico dello Sri Lanka che amava sperimentare le tecniche fotografiche (inclusa la solarizzazione e il fotomontaggio) indagando con sensibilità il corpo maschile come sfida ai preconcetti e agli stereotipi sessuali. Come scrive Mario D’Souza, «la macchina fotografica osserva il corpo come una delicata scultura, illuminata dalla luce e dal sudore. Queste composizioni ricalibrano il lavoro fisico non come sottomissione o asservimento, ma come una restituzione estetica ed etica del corpo bruno nell’ordine coloniale che tenta di disciplinarlo».

Ibrahim Mahama, «Parliament of Ghosts-Anand Warehouse», KMB 2025. Photo: Manuela De Leonardis

Manuela De Leonardis, 16 dicembre 2025 | © Riproduzione riservata

Alla Kochi-Muziris Biennale anche Ibrahim Mahama, signore dell’arte secondo «ArtReview» | Manuela De Leonardis

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