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Ritratto di Ibrahim Mahama

Photo credits Peter Rosemann. Courtesy of the artist and APALAZZOGALLERY

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Ritratto di Ibrahim Mahama

Photo credits Peter Rosemann. Courtesy of the artist and APALAZZOGALLERY

Ibrahim Mahama: «l’arte è un archivio e un organismo vivente». Il nuovo Signore della Power 100 mondiale si racconta a «Il Giornale dell’Arte»

L’artista ghanese è stato inserito al primo posto nella celebre classifica di ArtReview (2025), che riunisce le figure più importanti del panorama globale

Davide Landoni e Luca Zuccala

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Suo padre era un ingegnere civile, costruiva strade, ponti e infrastrutture. Poche altre cose, come osservare qualcosa crescere, restituiscono a un bambino l’idea che passato e futuro sono tenuti insieme dal presente. Un presente che deve essere d’azione, di fabbricazione. In una parola, edificante. Ibrahim Mahama, nato a Tamale nel 1987, è cresciuto con una convinzione pratica e visionaria dell’avvenire, fondata sullo stimolo a costruire, con ciò che resta, nuove possibilità collettive. Oggi le sue installazioni monumentali - dall’esordio da Saatchi Gallery agli interventi sui bastioni di Porta Venezia, a Milano, o sul Barbican Centre di Londra, fino alle recenti mostre da White Cube e da Apalazzogallery, a Brescia - nascono da materiali consumati da storie di fatica e sofferenza, come sacchi di juta, vecchi documenti, letti d’ospedale, carcasse di treni. Ogni frammento un archivio di crisi, migrazioni, cambiamenti forzati. L’arte come atto politico. Vendere opere in Occidente per restituire risorse al nord del Ghana, casa sua, dove ha fondato tre istituzioni indipendenti: SCCA, Red Clay e Nkrumah Volini. Laboratori di educazione, sperimentazione e immaginazione civica. Figura centrale del Black Artistic Renaissance, al primo posto nell’ultima Power 100 di ArtReview (2025) e nominato agli Art Basel Awards, ha esposto alla Biennale di Venezia (2015) e a Documenta Kassel (2017), ma anche alla Biennale di Sydney, Bienal de São Paulo, Lagos Biennial e Desert X AlUla. Le sue opere, nate collettivamente, poco hanno a che fare con l’autorialità, tantomeno con la strumentalizzazione. Sono oggetti, che attraverso l’arte smettono di essere oggetti. Diventano ganci a cui l’umanità può appigliarsi, stringersi per farsi un po’ più vicina.

Il tuo lavoro spesso parte da materiali di scarto, oggetti trovati che portano i segni di una vita precedente, economica e sociale. Cosa ti guida nella scelta di questi materiali?
La prima cosa che mi guida, e magari può sorprendere, non è la politica. Vengo dalla pittura, e per me il materiale è innanzitutto superficie, colore, texture, forma. Inizio sempre da lì. Poi accade qualcosa: più tempo trascorri con un materiale, più questo rivela le sue storie, i suoi traumi, la rete di relazioni di cui è fatto. È come se l’estetica, a forza di essere osservata, facesse emergere il substrato politico che contiene. Ogni graffio, ogni cucitura, ogni macchia viene da qualcuno o qualcosa: lavoro, fatica, commercio, colonialismo, mobilità globale. Per me la scelta del materiale nasce dal puro interesse estetico, ma inevitabilmente si apre a un campo più ampio. L’oggetto diventa un archivio vivente, e io devo decidere come far parlare questo archivio. È da questo incontro tra pura forma e pura storia che nasce il mio lavoro.

Il tuo lavoro esplora temi come globalizzazione, lavoro, colonialismo. Quando un visitatore guarda una tua installazione, qual è la prima cosa che vorresti che comprendesse?
Vorrei che si rendesse conto che gli oggetti che vede ogni giorno non sono mai neutrali. Hanno porosità, fallimenti, fragilità che la vita quotidiana rende invisibili. Quando un treno o un sacco di juta entrano in uno spazio artistico, cambiano relazione con lo sguardo: all’improvviso diventano leggibili. In Ghana, per esempio, le persone hanno forse più familiarità con certi oggetti o materiali, ma presentati in forma artistica li vedono come se fosse la prima volta; è come rivelare ciò che era sotto i loro occhi da sempre. In Europa succede lo stesso. Chi guarda, per esempio, un treno come pura infrastruttura non ne nota le curve, i dettagli, la storia politica che lo ha generato. Nel museo o nella piazza, invece, quel treno diventa un corpo. Molti dicono che le mie opere non sono “belle”, ma la bellezza è lì, solo che non è immediata: è una bellezza lenta, che chiede tempo e attenzione.

Ibrahim Mahama, 2016, installation view, In Dependence, APALAZZOGALLERY, Brescia, Italy, 2018

Lavori spesso con oggetti della vita quotidiana. Come eviti l’estetizzazione della marginalità?
È un rischio reale. Ma la risposta sta nell’onestà con cui si presentano gli oggetti e le storie che portano. Non voglio romanticizzare la durezza della loro origine. Voglio aprire spazi immaginativi. Un materiale può nascere in una condizione difficile, ma può essere letto anche attraverso la storia della pittura, della scultura, della forma. Cerco di liberare il materiale dal determinismo del contesto, senza cancellarlo. È un equilibrio delicato, ma necessario.

La tua pratica cambia molto a seconda del luogo in cui lavori?
Sì, cambia completamente. Non prendo mai un lavoro e semplicemente lo sposto. Quando preparo un progetto per un luogo, mi immergo nella sua storia, nella sua struttura, nelle sue cicatrici. Anche se porto materiali dal Ghana, devo capire quali connessioni li uniscono al contesto in cui arriveranno. Nel caso del treno esposto a Vienna, ad esempio, ho scoperto che era stato costruito in Germania e inviato in Ghana negli anni Ottanta, durante un periodo economicamente difficilissimo. Quell’oggetto contiene la storia della modernizzazione forzata, del lavoro femminile migrante, delle trasformazioni urbane. Ricomporlo come scultura significa far emergere tutto questo. Ogni progetto richiede quindi studio, ascolto e una negoziazione continua tra ciò che porto con me e ciò che incontro.

Il lavoro collettivo è fondamentale nella tua pratica. Come gestisci la questione della paternità dell’opera?
Per me la paternità non è mai del tutto individuale. Gli oggetti hanno già vissuto vite precedenti, collettive, prima di arrivare da me. Artigiani, lavoratori, trasportatori, persone comuni hanno lasciato tracce su di loro. Quando li trasformo, cerco di restituire questa pluralità. Inoltre, lavoro con molte persone nei miei vari progetti, e voglio che il modo in cui produciamo abbia un valore etico. Non mi interessa creare opere che si isolano dal loro contesto, che entrano in un museo e lì si chiudono. Se un lavoro genera capitale, quel capitale deve tornare a chi permette che esista: la comunità, il paesaggio, le istituzioni locali. L’arte è un archivio e un organismo vivente, non un trofeo.

Nei tuoi lavori c’è sempre una tensione tra monumentalità e fragilità. È una scelta consapevole?
Assolutamente sì. La monumentalità non nasce dal desiderio di impressionare, ma dall’atto di riparare. Lavoro spesso con oggetti rotti, tagliati, smembrati: il mio compito è ricomporli senza cancellarne le ferite. L’opera deve mantenere la sua vulnerabilità. Quando una scultura appare imponente ma allo stesso tempo fragile, permette a chi la guarda di percepire non solo la forza della forma, ma anche il peso delle sue assenze, ciò che è andato perduto. Questa tensione crea un senso di responsabilità nello spettatore.

Ibrahim Mahama, MoCA Skopje. Photo Tatjana Rantasha

Negli ultimi anni il mondo dell’arte ha iniziato a riconoscerti come una figura centrale. Come vivi questo cambiamento?
Con gratitudine, ma anche con senso critico. Per molto tempo gli artisti africani non sono stati riconosciuti nella loro dimensione intellettuale. Le grandi mostre del Novecento hanno spesso presentato l’Africa come un serbatoio di forme “primitivizzate”, ignorando la complessità teorica delle pratiche. Essere oggi riconosciuto significa, per me, portare con me tutte le persone, gli insegnanti, i collettivi che hanno reso possibile questo percorso. La mia formazione a Kumasi, con figure straordinarie come Karika Chasedu, mi ha insegnato che l’arte è un campo di pensiero, non solo di oggetti. Il riconoscimento internazionale è un’opportunità per ricordarlo.

C’è qualcosa che il mondo dell’arte ancora non comprende del tuo lavoro?
Penso che la comprensione sia sempre parziale. Alcune istituzioni colgono la complessità delle implicazioni politiche del mio lavoro, altre preferiscono leggerlo solo come gesto estetico. Ma è parte del processo: un’opera non si esaurisce mai nella prima interpretazione. A volte serve una generazione per capirla davvero. Questo però non è un limite, è lo spazio in cui l’arte continua a vivere e produrre senso.

Su cosa stai lavorando in questo periodo?
Sto sviluppando una scuola d’arte indipendente nel nord del Ghana, un progetto che richiede tempo, cura e infrastrutture. Parallelamente sto trasformando vecchi spazi industriali degradati in nuove istituzioni culturali. Mi interessa l’idea che anche le sculture possano diventare architetture, spazi abitabili, luoghi di educazione. Dopo Red Clay e SCCA, il mio obiettivo è capire cosa potremo costruire nei prossimi dieci anni, come espandere le possibilità delle istituzioni nate dal basso.

Ibrahim Mahama, Parliament of Ghosts (2025). Courtesy Ibraaz © Hugo Glendinning

Come immagini il sistema artistico ghanese tra dieci anni?
Lo immagino più ampio, più libero, più critico. Spero che le nuove generazioni non si sentano costrette a inseguire solo il mercato, ma che vedano l’arte come un campo di domande: perché usiamo certi materiali? quali storie portano con sé? come redistribuire valore? Se costruiamo una base solida, avremo artisti capaci non solo di competere globalmente, ma di reinventare le forme dell’arte stessa. La mia ambizione non è essere un modello, ma creare condizioni in cui altri possano immaginare ancora di più.

L’Africa e il Ghana sono spesso rappresentati attraverso stereotipi visivi. Il tuo lavoro contribuisce a scardinarli?
Credo di sì, anche se non da solo. Gli stereotipi esistono perché semplificano ciò che è complesso. Il compito degli artisti è complicare ciò che è troppo semplice, e quello delle istituzioni è costruire collezioni e narrazioni che rappresentino davvero la pluralità del mondo. L’arte africana non è un genere: è un continente, una storia, milioni di differenze.

Qual è, secondo te, la responsabilità etica dell’artista oggi?
L’artista deve interrogarsi: sulla propria posizione, sulle proprie eredità, su come redistribuire il valore che produce. Non basta creare opere, bisogna creare condizioni. A volte significa fare sacrifici, reinvestire il proprio capitale in progetti comuni, rinunciare al comfort per favorire la crescita di una comunità. L’etica non è facoltativa, ma una pratica quotidiana.

Davide Landoni e Luca Zuccala, 04 dicembre 2025 | © Riproduzione riservata

Ibrahim Mahama: «l’arte è un archivio e un organismo vivente». Il nuovo Signore della Power 100 mondiale si racconta a «Il Giornale dell’Arte» | Davide Landoni e Luca Zuccala

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