Verifica le date inserite: la data di inizio deve precedere quella di fine
Olga Gambari
Leggi i suoi articoliL’11 luglio del 1995, nella città bosniaca di Srebrenica iniziò un massacro che in pochi giorni fece oltre 8mila vittime tra uomini e ragazzi bosniaci musulmani, per mano dell’Esercito della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina comandato da Ratko Mladić (ma la cifra ogni anno viene aggiornata in un’indagine aperta nelle fosse comuni). Insieme a quelle vittime «morì» anche l’Onu. Un massacro annunciato, di fronte al quale il battaglione olandese dei Caschi blu Onu girò le spalle, nonostante la cittadina della Bosnia orientale fosse stata dichiarata «zona protetta» con la Risoluzione 819 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite dall’aprile 1993. Dopo anni di vaghe minacce mai realizzate, le forze della Repubblica Serba di Bosnia erano ormai certe che nessuno sarebbe intervenuto per fermarle.
Le truppe dell’Onu scelsero lo stesso atteggiamento inerme e indifferente che l’Europa assume spesso di fronte alle tragedie esterne ai suoi confini, quella dei migranti per esempio, quella di Gaza, dove lo sdegno e la condanna da parte della società civile, così come la richiesta di assunzione di responsabilità, si scontra con le braccia conserte della politica internazionale.
Nel 30mo anniversario di quel genocidio, la realtà nelle terre della ex Jugoslavia è quella di una pace fragile che ha cristallizzato le divisioni etniche.
Per commemorare le vittime di Srebrenica, perché assurgano a simbolo universale di memento anche per il nostro contemporaneo, la mostra «Spazi di Resistenza», al Mattatoio di Roma dal 12 settembre al 12 ottobre, invita tre artiste italiane e tre bosniache a dialogare. Sono Simona Barzaghi, Gea Casolaro, Romina De Novellis, Šejla Kamerić, Smirna Kulenović e Mila Panić. «Ho scelto una narrazione che mette al centro la terra come spazio reale e ideale, una terra che ha vissuto la morte, accolto le spoglie, che è stata violata, bruciata ma da cui può rinascere la vita, in una rigenerazione dove le radici profonde sbocceranno in nuovi frutti», spiega la curatrice Benedetta Carpi De Resmini. Un riscatto, una rinascita fisica ed ecologica, spirituale, non solo geopolitica.
L’inizio e la fine del percorso della mostra sono nella natura. Accoglie l’«Erba di Sarajevo», fotografie di prati verdissimi che diventano inquietanti quando vi leggiamo sopra: «Dovevi avere paura anche dell’erba. Ogni piccola aiuola poteva nascondere una mina». Gea Casolaro, quando visitò Sarajevo alla fine del conflitto nel 1998, annotò questa frase pronunciata da un superstite. E quella voce risuona ancora oggi. Congeda, invece, una videoinstallazione di Mila Panić, «Burning field», dove la vegetazione brucia in un incendio, secondo un’antica pratica contadina per rendere fertile il suolo. Una speranza con cui si esce dalla mostra: dalla morte, la vita. Emozionante è anche installazione di Smirna Kulenović «Down to earth», un cumulo di terra di quattro metri con dei buchi sulla superficie, nei quali il pubblico è invitato a infilare la testa per udire voci di donne che intonano canti tradizionali bosniaci. Un buio che a volte è, invece, quello dell’orrore, della violenza, da cui è scaturita la storica opera di Šejla Kamerić «Bosnian girl». Un manifesto in cui alla gigantografia di un suo ritratto fotografico è sovrapposto il terribile graffito «No teeth...? A mustache...? Smell like shit...? Bosnian Girl!», un insulto verso le donne bosniache scritto da un soldato olandese e trovato su un muro di una caserma a Srebrenica.
L’intento è non recedere mai, nemmeno con lo sguardo, mentre gli occhi dell’artista fissano impassibili il pubblico. Anche questo è uno spazio di resistenza.
Durante l’inaugurazione del 12 settembre, Romina De Novellis in una performance proverà a lavare via il colore dagli stracci con cui ha composto una grande bandiera bosnica che ricopre tutto il padiglione. Un gesto che evoca la famosa performance «Balkan Baroque» di Marina Abramovic alla Biennale di Venezia del 1997, con cui vinse il Leone d’oro, dove lavò per ore ossa di bovini macellati come atto funebre e di cura, di denuncia del dolore infinito provocato dalla fratricida guerra balcanica. Una bandiera che torna nell’opera partecipata di Simona Barzaghi, un assemblaggio di bandiere dei comuni che l’artista ha incontrato attraversando la Bosnia, conoscendo storie e persone, chiedendo loro di cucire insieme a lei questo lavoro, che diventa un luogo e un riparo collettivo dove ritrovarsi.

Gea Casolaro, «L’erba di Sarajevo #2», 1998-2025. © Gea Casolaro. Courtesy l’artista

Smirna Kulenović, «A Seed for a Song», 2025. © Smirna Kulenović. Courtesy l’artista