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Frank Stella

The New York Times

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Frank Stella

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Addio a Frank Stella

Ci lascia uno dei massimi artisti del XX secolo, con le sue astrazioni minimaliste, i «Black Painting», tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta ha rivoluzionato il linguaggio pittorico e rubato la scena all’Espressionismo astratto

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Jenny Dogliani

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« Penso davvero che una buona idea pittorica valga più di tanta destrezza manuale »

Si è spento il 4 maggio Frank Stella, a causa, come riporta il «New York Times», di un linfoma. Con i suoi «Black Painting» ha rivoluzionato l’astrattismo, rispondendo alla crescita dell’Espressionismo astratto del secondo dopoguerra. Erano dipinti piuttosto estremi, senza alcun colore e stimolazione visiva. Una struttura di linee nere parallele, rigorosamente organizzate, intervallate da linee bianche, contrarie all’impulsività, alla casualità e alla gestualità dell’action painting. Portò l’astrazione a un livello estremo, mirando al grado zero della pittura. Nato il 12 maggio 1936 a Malden in Massachusetts, aveva studiato arte alla Phillips Academy di Andover, con Hollis Frampton e Carl Andre, i suoi amici più intimi, proseguì poi gli studi all’Università di Princeton, concentrandosi su Medioevo, arte moderna ed Espressionismo astratto. A New York rimase colpito dalle bandiere di Jasper Johns. A 23 anni partecipa con i «Black Paintings» a una collettiva al MoMAl, l’anno successivo, nel 1960, li espone nella sua prima personale, da Leo Castelli. Seguiranno quindi le «Shaped canvases»; nel decennio successivo incorpora la tecnica del rilievo nelle in opere che per le proprie qualità scultoree definisce «massimaliste». Inizia a usare l’alluminio invece della tela. Il Minimalismo, che aveva caratterizzato il periodo precedente assume qualità barocche, con elementi curvilinei, colori DayGlo e pennellate più impulsive, si vedano serie quali «Moby Dick». Dagli anni ’90 realizza sculture per spazi pubblici e progetti architettonici e mostre in tutto il mondo. È tra i capisaldi dell’arte del XX secolo: «un gigante dell’arte astratta del dopoguerra, la straordinaria opera di Stella, in continua evoluzione, ha indagato le possibilità formali e narrative della geometria e del colore e i confini tra pittura e oggettività», così lo ricorda Marianne Boesky, la gallerista newyorkese che ne ha annuncio la scomparsa. 

Frank Stella nel 1958-60 davanti a un suo «Black painting»

Una «Shaped canvas» del 1965 di Frank Stella al Whitney

Cristina Carrillo intervista Frank Stella nel 2012 in occasione del 75mo compleanno

Il Giornale dell’Arte ricorda l’uomo e l’artista con una lunga intervista della storica e curatrice Cristina Carrillo, pubblicata in occasione del 75mo compleanno, celebrato con importanti retrospettive a Washington, Londra e Berlino, e un’ampia mostra allestita in collaborazione con l’architetto e scultore spagnolo Santiago Calatrava a Saragozza.

Ha festeggiato il 75mo compleanno?

Non volevo ignorarlo, ma non volevo nemmeno festeggiare l’invecchiamento.

L’arte la stimola ancora come quando era ragazzo?

È cambiato. L’unica cosa che rimane invariata è l’immaginazione, ma cambia la capacità di gestire l’immaginazione quando si perdono le capacità fisiche e mentali.

Pensa che un artista sia più libero di altre persone?

In un certo sì, ma è anche un peso, essere liberi non è così facile come sembra.

Il suo con l’astrazione è stato un amore a prima vista?

Sono nato nel 1936, nell’era dell’astrazione. Malevich, Kandinsky e poi Mondrian erano tutto per me. Avevano abbastanza idee da tenermi occupato e da farmi girare la testa. Si trattava di pittura. Se invece penso alla scultura, all’architettura o all’arte grafica, la mente va al Costruttivismo russo, Rodchenko è stato travolgente. Le possibilità sembravano infinite. E questo il modo in cui vedo l’arte astratta oggi, anche se è cambiata.

In che modo è cambiata?

Un esempio semplice, prendiamo «Bianco su bianco» (1918) di Malevich, un dipinto da cavalletto, non molto grande ma molto interessante e difficile. Poi prendiamo un quadro di Barnett Newman. La differenza di scala rende le due cose completamente diverse, ma guidate dalla stessa idea. La pittura è cambiata radicalmente dopo la seconda guerra mondiale, quando il concetto di pittura da cavalletto ha iniziato a svanire e le dimensioni dei murales per esprimersi sono diventate così importanti per gli artisti. È stato un grande cambiamento, anche per me. Dopo un po’ la scala dei dipinti è stata accettata. Ora non è più un problema così grande.

Lavora mai in scala ridotta?

Ho realizzato alcuni piccoli dipinti per i miei amici quando stavo lavorando ai primi dipinti a strisce. È stato piuttosto difficile realizzare quella che si potrebbe definire una pittura intermedia o convenzionale, ad esempio un quadrato di un metro. È sempre stato molto difficile pensare a quella scala.

Il suo attuale, enorme studio, a due ore di macchina da New York, è come un museo personale. Voleva essere circondato dal suo lavoro?

È successo per caso. Lo usavo come magazzino, avevo problemi con lo studio di New York e si è trasformato nel luogo in cui lavoravo e che usavo anche come magazzino. A volte è bello trovarsi di fronte a tutto il mio lavoro, altre volte è piuttosto fastidioso. Vivo in città. Pianifico tutto il lavoro in città e poi lo realizzo in studio.

Frank Stella in mostra a Varsavia

La serie «Moby Dick» in mostra a Cincinnati

Crede nel mito della natura solitaria degli artisti?

C’è un elemento di solitudine e quando le cose non vanno bene si è soli e abbandonati e ci si dispiace per se stessi. Ma si dipende dall’energia degli altri, anche se è competitiva. Molti artisti affermano di lavorare da soli e di avere le proprie idee, ma io penso che siano balle.

Lei ha una passione per i cavalli da corsa e le auto veloci.

Le mie preferite sono le corse di cavalli in pianura. Sono anche un appassionato di corse automobilistiche. È un mondo diverso da quello dell’arte. Nel mondo dell’arte le persone hanno le proprie opinioni su ciò che è meglio, o su questo e quello. Nel mondo delle corse è più semplice: alla fine della gara, chi arriva primo è il migliore. È un’idea piuttosto primitiva: andare sempre più veloce. Non è sofisticato, ma ha una sua bellezza. È quantificabile, l’esatto contrario dell’arte.

Lei sostiene che l’arte sia tutta una questione di bellezza dei colori. È così?

Penso che si tratti della bellezza, punto e basta. Di tutto l’insieme, dell’esperienza pittorica. Si vuole che il lavoro che si fa sia bello. Ma non è sempre bello, ovviamente. Questo è l’obiettivo a cui tendere ed è vero che si tratta di una situazione relativa; la mia idea di ciò che è bello non si allineerà con l’idea di ciò che è bello di chiunque altro. A volte sei fortunato e loro vedono come belle cose che tu non pensavi fossero belle. Allora tieni la bocca chiusa.

Le interessa la bellezza?

È un dato di fatto. Nessuno si propone, anche se la gente dice di farlo, di realizzare quadri brutti o poco piacevoli. Penso che si abbia un senso innato del tatto e anche una sorta di gusto. Mi sembra che il colore dei miei quadri sia sempre lo stesso. Fa parte dello stile. In un certo senso si ha uno stile, anche se si cambia l’organizzazione delle cose.

Di recente ha tenuto una mostra con Kandinskij alla Phillips Collection di Washington. È vero che è stato la sua prima ispirazione?

Ho scoperto Kandinskij a scuola. Probabilmente è stato il primo artista che mi ha ispirato. Non credo di aver capito il complicato scenario dell’essere un artista moderno in Europa all’inizio del XX secolo, ma i suoi dipinti mi hanno colpito molto. È stato altrettanto travolgente andare a New York e trovarmi faccia a faccia con l’arte del nostro tempo. La cosa meravigliosa di New York e delle gallerie è che si poteva entrare nelle gallerie e vedere i migliori lavori dei migliori artisti a costo zero. Se De Kooning aveva una nuova idea e una nuova mostra, andavi sulla 57ma strada e la trovavi lì, pronta per te. Mi piacciono di più le gallerie tranquille che i musei affollati; puoi stare da solo in una galleria con le opere di Barnett Newman o Robert Motherwell a tuo piacimento. Per certi versi la scena newyorkese sta cambiando, ma quell’idea è ancora viva. Questo rende attraente vivere a New York.

Dalla serie «Polish Village»

Un’opera di Frank Stella aGround Zero

Lei si è fatto conoscere con l’astrazione, ma scoprire Caravaggio ha rappresentato una svolta. Come è andata?

Mi piace l’astratto ed è il tipo di arte che faccio, ma non per questo non voglio avere niente a che fare con l’arte rappresentativa. Se trovo qualcosa che mi piace in un dipinto di Caravaggio o sulla parete di una grotta di Lascaux voglio essere in grado di accoglierla e sentirmi conforme a essa. La differenza per me è che quando sono cresciuto negli anni Cinquanta e Sessanta, anche se la pittura espressionista astratta era dominante, c’era sempre l’idea di competere con un altro tipo di arte, l’arte rappresentativa, e che non fosse fruttuoso. Ora penso che sia una specie di perdita di tempo: mi sembrava che i problemi dell’arte fossero e saranno sempre gli stessi. La gente ha sempre amato Caravaggio, perché gli sembrava così reale, mentre io ho sempre pensato che fosse un’idea volgare. Intendo dire che l’illusione era così convincente che ci si eccitava. Perché in fondo, per quanto sembrasse reale, era pur sempre un quadro piatto: non era poi così reale. Era davvero un quadro. Ma devo confessare che quando ho visto il «Giovanni Battista» di Caravaggio (1600 ca) al Museo Capitolino, è stato molto convincente. La figura è praticamente uscita dal quadro e mi è arrivata in braccio, in modo molto drammatico. La parte vera è stata quella dipinta da Caravaggio, lo sforzo di fare un’espressione pittorica che conta. Dopo di che mi sono sentito molto libero: l’arte rappresentativa poteva fare quello che voleva e io facevo quello che volevo, ed era davvero tutto uguale. Si tratta di cercare di essere reali.

Nei decenni successivi ai «Black Paintings» (1958-60) il suo lavoro è cambiato molto.

Anche nei primi dipinti, la struttura è piuttosto importante. Quei dipinti cercano di trovare un modo per organizzarsi e questo resta sempre alla base di qualunque cosa faccia. Non sono davvero in grado di abbandonare quel tipo di struttura. Non so se vuole chiamarla coerenza pittorica, ma qualunque cosa sia, ecco cosa c’è.

I suoi titoli hanno spesso allusioni letterarie o storiche. Come le vengono in mente?

È difficile dirlo. Fondamentalmente è per poterli identificare. A volte sembrano funzionare davvero, altre volte sono essenzialmente periferici. Non ha senso farsi condizionare da questo. Non devo essere necessariamente illustrativo. Credo che la serie di «Moby Dick» [1986-97] sia una sorta di punto di svolta. Ero un po’ spaventato, e probabilmente lo sono ancora con Moby Dick, ma le immagini sono essenzialmente superfici curve. Hanno iniziato a muoversi davvero e il romanzo si muove; si va in giro per il mondo, è piuttosto umido, ci sono un sacco di onde e di movimento. Credo che l’idea sia piuttosto semplice. L’ho detto molte volte: l’astrazione può essere molte cose. Può, in un certo senso, raccontare una storia, anche se alla fine si tratta di una storia pittorica.

Lei lavora molto rapidamente. La serie «Polish Village» (1970-74), ad esempio, comprende più di 100 opere. Come riesce a mantenere questo ritmo?

A me non sembra così veloce. Ricordo solo le parti che rallentano tutto. Sinceramente non ci penso. Ho un piano. Fino a poco tempo fa, negli ultimi 20 anni circa, avevo sempre dei disegni per qualsiasi cosa facessi.

Ha mai avuto delle crisi?

Le chiamerei piuttosto «stagnazioni», quando si sa che non si va da nessuna parte. Ma non si può fare molto.

Jenny Dogliani, 05 maggio 2024 | © Riproduzione riservata

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