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Elena Franzoia
Leggi i suoi articoliAncora adolescente, Ruth Asawa conobbe la durezza dei campi di concentramento in cui nel 1942, in piena Seconda guerra mondiale, il governo statunitense illegalmente rinchiuse migliaia di cittadini di origini giapponesi. Asawa non dimenticò mai questa esperienza, continuando a prodigarsi per tutta la sua lunga vita (morì nel 2013 a 87 anni) per la promozione dell’arte come diritto esteso a tutti i livelli della società, e dedicando particolare attenzione alla comunità nipponica residente negli Stati Uniti. A questo incessante impegno Asawa affiancò un’inesausta creatività artistica all’insegna della sperimentazione, che il MoMA ricorda a New York celebrandone il centenario dalla nascita con la grande mostra «Ruth Asawa: A Retrospective» (19 ottobre-7 febbraio 2026), realizzata in collaborazione con il San Francisco Museum of Modern Art, dove la mostra si è da poco conclusa. «Non mi interessa tanto esprimere qualcosa. Mi interessano di più le potenzialità del materiale. Ecco perché continuo a esplorare», dichiarò infatti Asawa, riflettendo su una carriera lunga ben 60 anni. A curare la mostra sono Cara Manes e Janet Bishop, coadiuvate da Dominika Tylcz, Marin Sarvé-Tarr e William Hernández Luege, che hanno selezionato 300 opere in cui alla scultura si affianca la pittura, rappresentata da dipinti e opere grafiche. Materiali d’archivio come foto e documenti completano il ritratto dell’artista, impostato cronologicamente e integrato da sezioni tematiche che ne approfondiscono metodi di lavoro e fonti di ispirazione.
«Ciò che rende eccezionale la pratica di Asawa è la molteplicità delle sue ricerche artistiche e la straordinaria capacità di trasformare le cose più semplici in soggetti di una ricerca creativa durata tutta la vita, afferma Manes. La mostra mira a offrire molteplici modi di accostarsi alla sua opera, rispecchiando ciò che Asawa ha descritto come l’“atto totale” tipico della creazione artistica». Il filo metallico rimane il materiale d’elezione, di cui l’artista apprese il potenziale già durante gli studi presso il Black Mountain College: una scuola sperimentale vicino ad Asheville, nella Carolina del Nord, che frequentò dopo la fine della guerra. A questo periodo è dedicata la prima sezione della mostra. «Al College Asawa sviluppò una tecnica per intrecciare il filo metallico ispirata alla cesteria messicana che aveva osservato in prima persona come studentessa volontaria a Toluca, precisa Manes. Da questa invenzione trasse origine il suo contributo più significativo alla scultura astratta del XX secolo: un corpus radicale di complesse sculture sospese realizzate con fili metallici intrecciati». Peculiare invece dalla tradizione giapponese è un altro materiale molto amato da Asawa, la carta piegata, cui l’artista molto si dedicò insieme al filo di ferro dopo il 1949, quando si trasferì a San Francisco. Qui Asawa si occupò anche di design commerciale ed espose regolarmente alla Peridot Gallery di New York, nella convinzione che l’arte debba essere un’attività quotidiana. A questo fondamentale periodo, cui la mostra attribuisce grande risalto, appartengono alcune capitali opere esposte, come «Senza titolo (S.535, Forma continua a cinque lobi sospesa all’interno di una forma con sfere nel primo e nel quarto lobo e una forma a goccia nel terzo lobo)» del 1951.
Ruth Asawa, «Untitled (S.535, Hanging Five-Lobed Continuous Form within a Form with Spheres in the First and Fourth Lobes and a Teardrop Form in the Third Lobe)», 1951, collezione privata. © 2025 Ruth Asawa Lanier, Inc.. Courtesy David Zwirner
Ruth Asawa, «Untitled (S.390, Hanging Tied-Wire, Double-Sided, Center-Tied, Multi-Branched Form with Curly Ends)», 1963. © 2025 Ruth Asawa Lanier, Inc.. Courtesy David Zwirner
Nei primi anni Sessanta Asawa scoprì un nuovo metodo di lavorazione del filo metallico, che le consentì di lavorare su forme più organiche, come dimostra l’opera «Senza titolo (S.390, Filo metallico appeso, bifacciale, legato al centro, forma multiramificata con estremità arricciate)» del 1963. Sempre agli anni Sessanta risale il suo interesse per la grafica. Nel 1965 l’artista venne infatti invitata per una residenza di due mesi al Tamarind Lithography Workshop di Los Angeles, fondato nel 1960 dall’artista e attivista June Wayne allo scopo di rilanciare un linguaggio all’epoca in declino presso gli artisti statunitensi. Asawa produsse un portfolio di 54 stampe eterogenee, ma rigorose e sperimentali, di cui il MoMA possiede una significativa collezione in parte esposta in mostra per la prima volta. «Tamarind divenne un nodo cruciale nell’ecosistema dell’incisione in California e non solo, gettando le basi per una rinascita della stampa che presto si diffuse in tutto il Paese, scrivono Manes e Tylcz. La dedizione di Wayne si sposò con il nascente impegno di Asawa nel campo dell’educazione artistica, poi sviluppato negli anni successivi. Entrambe credevano nell’imparare facendo e dedicavano tempo e risorse a condividere con altri l’esperienza della sperimentazione. Quando Asawa arrivò, il Workshop aveva già profondamente inciso il panorama artistico americano, avendo ospitato artisti come Josef e Anni Albers, Bruce Conner, Sam Francis, Gego, Richard Hunt e Louise Nevelson. Grazie all’atmosfera di creatività e collaborazione che vi si respirava, Asawa dichiarò: “Non c’è posto al mondo come Tamarind”».
Suggestionata dall’esempio di Wayne, Asawa fondò l’Alvarado Arts Workshop, nato come laboratorio di arti figurative e in seguito divenuto, come sostiene Manes, «un movimento epocale che ha integrato programmi di educazione artistica essenziali nei sistemi scolastici pubblici della Bay Area di San Francisco. In mostra presentiamo materiali d’archivio relativi all’impegno civico di Asawa, alla sua pratica didattica e ai suoi numerosi progetti collaborativi di arte pubblica, tra cui il “Japanese American Internment Memorial” (1994) commissionato dalla città di San José. Il suo pionieristico, visionario concetto di pedagogia è anche il modello su cui abbiamo impostato il programma di eventi e attività pubbliche che accompagnano la retrospettiva».
Ruth Asawa, «Poppy», 1965. © 2025 Ruth Asawa Lanier, Inc.. Courtesy David Zwirner