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Barbara Antonetto
Leggi i suoi articoliOttant’anni tra pochi mesi, un carisma magnetico e un’energia che si è diffusa nella stanza appena ha varcato la soglia della Galleria Cukrarna di Lubiana: così si è presentata Marina Abramovic all’inaugurazione della mostra «ART VITAL-12 Years of Ulay / Marina Abramovic» (fino al 3 maggio 2026).
Quando le hanno passato il microfono si è aperta a un flusso di coscienza: «Ulay era meraviglioso, era carismatico, era interessante, era sexy, ma quanto era complicato! Quando c’è stato amore, era amore fantastico, quando c’è stato odio, era odio terribile, assoluto. Infine, dopo un percorso lungo e doloroso, il perdono. Questa mostra racconta tutto questo: è stata possibile solo grazie all’amicizia con Lena (Lena Pislak è la moglie di Ulay, Ndr). Altrimenti non ce l’avrei mai fatta. A Lubiana Ulay ha trascorso gli ultimi anni della sua vita e ha trovato la pace: era quindi l’unico luogo in cui aveva un senso riconciliarmi definitivamente con lui lasciandomi alle spalle il dolore della separazione e il successivo, violento diverbio per le royalities. L’unico modo per rendere possibile questa mostra è stato rinunciare al controllo. Se avessi dovuto ascoltare tutte le registrazioni, tutto il materiale, tutta l’incredibile mole di documentazione di ogni tipo, avrei fatto la mia selezione e avrei detto: “Questo non è possibile, questa lettera assolutamente no, questa fotografia non è buona”. Avrei dato la mia interpretazione, non sarebbe stata un’esposizione oggettiva. Peraltro io non ricordo che cosa ho fatto per esempio il 13 maggio 1978, mentre Cathy Koutsavlis e Rosa Lux, che hanno coordinato il progetto, sanno esattamente quale foto è stata scattata quel giorno. L’archivio è enorme ed è per questo che la mostra è così lunga, su quattro piani, ma è anche per questo che è così interessante. Non è noiosa per molte ragioni, ma soprattutto perché mette a nudo l’intimità della relazione ed espone cose che normalmente gli artisti non permettono di esporre.
E poi c’è il furgone, senza il furgone non avrei accettato di fare la mostra. Il furgone è il punto di partenza, il filo conduttore, il fulcro. Quando ci siamo incontrati ad Amsterdam era il 30 novembre del 1975 e incredibilmente era il compleanno di entrambi. Lui aveva la sua vita e il suo lavoro, io i miei, ma l’amore è scoccato subito e abbiamo pianificato di rincontraci presto esattamente a metà strada tra Belgrado e Amsterdam. Quando ci siamo rivisti a Praga abbiamo deciso che avremmo vissuto insieme. Poi sono tornata a Belgrado e ci ho messo tre mesi per decidere davvero di andarmene, di lasciare il mio Paese, di lasciare tutti. E quei tre mesi sono stati così difficili per me, abbiamo fatto così tante telefonate. La bolletta del telefono è arrivata talmente alta che mia mamma lo ha chiuso in una scatola di cartone. Non potevo comunicare in alcun modo, così ho deciso di scappare di casa. Avevo 29 anni, ho preso solo i miei negativi dal mio studio di Belgrado, niente vestiti, niente. Sono salita su un treno, poi su un autobus alla volta di Amsterdam. Mia madre è andata alla polizia a denunciare la mia scomparsa. Il poliziotto le ha chiesto: “Quanti anni ha sua figlia?”. Ha risposto: “29”. E lui: “Al commissariato abbiamo cose più importanti da fare” e l’ha rimandata a casa. Non sono mai più tornata.
Con Ulay volevamo fare qualcosa di completamente diverso. Così abbiamo comprato il furgoncino che vedete all’ingresso della mostra, un furgoncino molto economico della polizia francese. “Andiamo a fare una vita romantica”, ci siamo detti e siamo partiti: era il 1976 e abbiamo iniziato il nostro viaggio. Abbiamo vissuto nel furgoncino per cinque anni. Lo avevamo attrezzato di tutto il necessario: il fornelli elettrico per cucinare, il letto, i vestiti e il cane. Era una vita nomade, conosco ogni stazione di benzina che aveva una doccia decente. Fermavamo il furgone ovunque potessimo lavorare, ma abbiamo anche costruito barche, allevato pecore e fatto il formaggio: piuttosto buono. Era un lavoro senza compromessi. Lo chiamavamo Art Vital. Non lo abbiamo mai venduto: nessuno all’epoca avrebbe mai pensato di pagare il nostro lavoro, ma non avevamo bollette del telefono da pagare, né ci interessava migliorare il nostro livello di vita. Libertà totale, povertà incredibile, ma felicità reale perché eravamo molto innamorati. Lavoro e relazione sentimentale erano una cosa unica, indissolubile. Nel 1979, quando abbiamo deciso di andare in Australia, abbiamo venduto il furgoncino: in Australia non ne avevamo bisogno, abbiamo vissuto senza vestiti tra gli aborigeni nel deserto. Non sapevamo che fine avesse fatto il furgone quando Paul Schimmel, Chief Curator del Moca di Los Angeles, ce lo ha chiesto: “Stiamo realizzando una mostra molto importante intitolata “Out of Action”. Vogliamo esporre oggetti utilizzati dagli artisti nel proprio lavoro”. Ad esempio erano in mostra i chiodi con cui Chris Burden si è crocifisso in un Maggiolino Volkswagen per “Trans-Fixed”. Per sei mesi Schimmel ha cercato ovunque il furgoncino che avevamo utilizzato per una performance durante la Biennale di Parigi. Lo ha trovato in un cortile utilizzato come pollaio. Dopo Los Angeles, la mostra è andata in Giappone e il furgoncino è andato in Giappone. Vedendo la nostra casa esposta in una mostra ho pianto per giorni: mai avrei potuto immaginare che la nostra arte avrebbe avuto un tale successo. Ora è qui, in prestito dal Museo di arte contemporanea di Lione ed è il mio pezzo preferito. Questa di Lubiana è una mostra viva in cui tornare per vedere le performance nei video o dal vivo o per ascoltare gli audio riversati dalle vecchie cassette. Non è una ricostruzione storica, è un racconto su vari livelli».
Una veduta della mostra «ART VITAL-12 Years of Ulay / Marina Abramovic» alla Galleria Cukrarna di Lubiana. Photo: Blaz Gutman MGML
Una veduta della mostra «ART VITAL-12 Years of Ulay / Marina Abramovic» alla Galleria Cukrarna di Lubiana. Photo: Blaz Gutman MGML
Che cosa suggerirebbe agli artisti che dedicano il loro lavoro alla sopravvivenza delle minoranze oppresse?
Ognuno ha il proprio passato. Io ho avuto i miei problemi quando ho iniziato a fare arte nei primi anni Settanta. Sono dovuta passare attraverso restrizioni, censura, critiche velenose. Ogni generazione ha problemi diversi da affrontare. L’importante è non aver paura di nessuno e di niente, non preoccuparsi di quello che dice la gente. Bisogna seguire il proprio cuore e avere coraggio.
Quanto è importante riflettere sulla storia?
Ogni artista è un individuo a sé. Dal mio punto di vista, ho sempre pensato che l’arte deve avere molti significati. Non si deve limitare alle questioni sociali o politiche del mondo. Deve essere spirituale, deve essere provocatoria, deve infrangere le regole, deve stimolare le domande giuste e prevedere il futuro. Per essere buona l’arte deve fondere tutto questo.
Quindi la memoria per lei non ha valore?
Io odio i ricordi. Odio la memoria. Odio la malinconia della natura slava. Siamo sempre nostalgici di tutto. Siamo infelici quando rimaniamo nel nostro Paese, siamo infelici quando viviamo da qualche altra parte. Ci lamentiamo sempre di qualcosa. Il passato è passato. Il materiale esposto in mostra (ho messo a disposizione tutto quello che potevo dare, tutto quello che ho usato nel mio lavoro) non è per me, è per chi la viene a vedere. Il ricordo è qualcosa che è già stato catturato in ogni oggetto di questa mostra. Io devo andare avanti, non voglio pensare al passato. Voglio pensare a ora e a che cosa verrà dopo.
Che cosa prova per Ulay vedendo riuniti tutti questi oggetti?
Ulay è rimasto con noi per sempre. E ora, penso che sia qui, felice di quello che sta succedendo oggi. L’amicizia tra la me e sua moglie è qualcosa che non avrebbe neppure potuto immaginare.
Dunque secondo lei con la morte non moriamo del tutto?
Ho sempre creduto che quando moriamo è il corpo fisico che muore, ma l’energia non muore, rimangono 21 grammi di energia. È meraviglioso pensare che l’energia di Ulay è qui.
Dall’amore travolgente all’odio incondizionato. Come è riuscita ad arrivare al perdono e alla rimozione della rabbia?
Anche quando lo amavo, la nostra relazione era piena di momenti drammatici. Poiché la gente ha la tendenza a idealizzare, racconto questi momenti anche nel libro Love. Hate. Forgiveness dedicato ai miei dodici anni di relazione con Ulay dal 1978 al 1980. Poi lo scontro è stato durissimo. Dopo un bel po’ che non ci parlavamo più se non per avvocati, ho capito che l’odio è veleno per il corpo e ho fatto 36 ore di volo per andare in un piccolo paese dell’India a disintossicarmi dalla rabbia in un centro dove curano con la meditazione e il rilassamento. Quando sono arrivata non potevo crederci: Lena e Ulay erano lì. Ricordo di aver chiamato il mio ufficio e di aver detto: «Che cosa diavolo devo fare? È qui, lo ucciderò, non voglio stare nello stesso posto». Ma io avevo pagato per essere lì e anche loro avevano pagato per lo stesso motivo. Così siamo stati letteralmente costretti a stare insieme a meditare alle cinque del mattino. Lena, che nei primi tempi se ne stava nell’angolo più lontano, ha man mano iniziato ad avvicinarsi finché un giorno mi ha detto: «Non pensi che forse c’è qualcosa che l’universo vuole dirci facendoci trovare nello stesso posto nello stesso momento, senza che lo sapessimo o anche solo lo potessimo immaginare?» La situazione era così spirituale che abbiamo iniziato ad affrontare le circostanze in modo diverso. Pian piano abbiamo iniziato a parlarci, finché è arrivato questo incredibile rilascio della negatività, un perdono sincero, vero. È facile dire: «Perdono questo, perdono quello», ma in realtà non lo facciamo davvero. La negatività continua ad albergare in noi anche se non vogliamo ammetterlo. Ma perdonare davvero con il cuore è fantastico. Poi, due anni prima che Ulay morisse (il 2 marzo 2020, Ndr), ci siamo sentiti come sempre per il nostro compleanno e lui mi ha detto: «Marina, prenditi il merito per quello che hai fatto per il nostro lavoro». Questa è stata un’enorme ricompensa per me.
Lena Pislak, a lei chiediamo di raccontare questa storia dal suo punto di vista di moglie di Ulay.
Ho sempre ammirato Marina. Siamo nate nello stesso Paese, la Jugoslavia, e lei era la mia eroina. Io non ho studiato arte, ma in Jugoslavia eravamo tutti orgogliosi di lei. Poi ho incontrato Ulay; era poco più di un mese che stavamo insieme quando siamo andati al MoMA. «Non ci andrò mai se non vieni con me» mi aveva detto. Era la primavera del 2010 e Marina aveva dato il via alla performance «The Artist is Present» che prevedeva che stesse seduta immobile e in silenzio davanti ai visitatori, anch’essi immobili in silenzio. 1.700 persone si sono presentate a comunicare con il corpo e tra queste Ulay: Marina, che indossava una tunica rossa, gli ha preso le mani e i suoi occhi si son riempiti di lacrime. Io ero lì alla porta. Stavamo tutti piangendo. È stato tutto spontaneo, non c’era nulla di costruito, è stato uno dei momenti più commoventi della mia vita.
Una veduta della mostra «ART VITAL-12 Years of Ulay / Marina Abramovic» alla Galleria Cukrarna di Lubiana. Photo: Blaz Gutman MGML
Una veduta della mostra «ART VITAL-12 Years of Ulay / Marina Abramovic» alla Galleria Cukrarna di Lubiana. Photo: Blaz Gutman MGML
«ART VITAL-12 Years of Ulay / Marina Abramovic» è la più grande mostra allestita nella Galleria Cukrarna da quando è stata inaugurata all’interno di un ex zuccherificio abbandonato dopo un incendio. L’hanno preceduta due anni di ricerche negli immensi Marina Abramovic Archives da parte dei due curatori Alenka Gregorič e Felicitas Thun-Hohenstein che hanno spiegato: «L’esposizione è enorme, su tre piani; se il visitatore desidera ulteriormente approfondire può accedere agli apparati multimediali del mezzanino dove può perdersi a leggere la corrispondenza con le istituzioni, le lettere d’amore e addirittura ascoltare le conversazioni attraverso le quali Marina e Ulay concepivano e mettevano a punto i loro progetti dando importanza perfino alla distanza tra i due vasi, quelli che ci accolgono all’ingresso della mostra. Marina non ha posto limiti a questo lavoro di scavo in una vicenda che l’ha segnata profondamente, anzi ha fatto un passo indietro perché la selezione non fosse personale o condizionata. Ha però lasciato la sua impronta raccomandandosi che tenessimo a mente l’obiettivo: non la ricostruzione di una storia d’amore, che sarebbe risultata patetica, ma il racconto di cinque anni di duro lavoro, seppure fuso a un’esperienza di vita fuori dall’ordinario e a una passione forte e coinvolgente. La mostra è impostata come un viaggio, come quello di Marina e Ulay. L’abbiamo scandita in capitoli temporali attraverso i quali il visitatore ha modo di capire il livello di comunicazione e di condivisione raggiunto dai due artisti, uno stato di connessione reciproco e tra loro e il pubblico lontanissimo dal nostro attuale modo di comunicare, di condividere. La performance per Marina e Ulay non era semplicemente una forma d’arte, era un modo di pensare e di vivere. Per apprezzare tutto ciò vi invitiamo in particolare a soffermarvi sui disegni, per lo più inediti, e a metterli in relazione con i video e con lo spazio». Tra i prestatori l’Ulay Foundation, il macLYON, l’Akron Art Museum, il Kunstmuseum di Berna e il Kröller-Müller Museum di Otterlo.
Due le pubblicazioni a corollario della mostra: il libro fotografico Love. Hate. Forgiveness raccoglie le immagini scattate nei dodici anni della relazione tra i due artisti offrendo anche uno sguardo intimo sul periodo turbolento seguito alla loro separazione. Include inoltre una conversazione con Marina e una con Lena Pislak, in cui le due donne raccontano la propria personale esperienza di vita con Ulay, che cosa amavano e che cosa odiavano di lui, che cosa significava lavorare con lui e molto altro.
Il catalogo ART VITAL-12 Years of Ulay / Marina Abramović contiene un ampio materiale visivo e d’archivio, oltre a saggi che esplorano le differenti forme di intersezioni tra arte e vita, i limiti del corpo, la relazione con il pubblico e la paternità artistica, documentando come Ulay e Marina con le loro performance abbiano segnato la storia dell’arte contemporanea. In 440 pagine il volume, edito da Verlag der Buchhandlung Walther und Franz König, contiene più di 700 riproduzioni e 16 saggi (testi di Alenka Gregorič, Felicitas Thun-Hohenstein, Elisabeth von Samsonow, Amelia Jones, Bojana Kunst, Suzana Milevska, Diedrich Diederichsen, Sabine Priglinger, Michael Klein, Hana Ostan-Ožbolt-Haas, Matthieu Lelièvre e Kurt Kladler).
Per tutta la durata della mostra alcune performance iconiche, quali «Work Relation» e «A Similar Illusion» vengono riproposte da Katarina Stegnar e Primož Bezjak che si sono calati nei due protagonisti allenando le proprie capacità di concentrazione e resistenza tramite il workshop «Cleaning the House» presso il Marina Abramovic Institute di Karyes, in Grecia.
Marina Abramovic e Lena Pislak. Photo: Blaz Gutman MGML