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Francesca Orsi
Leggi i suoi articoliPino Musi (Salerno, 1958) è un artista con un’idea trasversale della fotografia. Il suo lavoro ha spaziato dall’analisi tipologica dello spazio architettonico alla trasposizione visiva dell’esperienza umana. In tempi recenti l’autore ha dedicato il suo lavoro alle interconnessioni con altre discipline espressive, soprattutto con la musica, punto di partenza per la mostra Polyphōnia alla Fondazione Biscozzi | Rimbaud ETS di Lecce. Aperta dal 19 settembre, fino al 6 gennaio, l’esposizione, a cura di Stefania Zuliani, è il risultato di un pensiero e di una pratica in cui il dato reale si astrae in griglie geometriche con riferimenti a precise sonorità musicali, lasciando, però, libero lo spettatore di interpretarne i risvolti. Con questa idea, Musi sconfina oltre le immagini di periferie estreme di metropoli europee in espansione: è così che, Parigi, Berlino o Anversa non si connotano più per le loro specificità urbanistiche, ma si mostrano come quinte di uno scenario di forme create per sottrazione, armonia e disarmonia.
Come nasce il suo progetto Polyphōnia?
Nasce nel 2018 sulla base di un input preciso: una riflessione sulla possibilità di trasporre visivamente l’esecuzione completa di String quartet no. 2 di Morton Feldman, grande esponente della “Indeterminate Music” newyorkese degli anni ’60. Avendone i vinili, ho iniziato a studiarli approfonditamente per cercare nuove possibili chiavi interpretative.
Come ha reso questa trasposizione?
Ho lavorato, fotografando ai bordi estremi delle città, a ridosso degli svincoli delle superstrade, dove gli edifici seriali di recente costruzione si espandono orizzontalmente. In queste nuove periferie, costellate da cellule abitative ben realizzate e ben collegate dalla rete di trasporti alle altre diverse aree urbane, non c’è, però, traccia di aggregazione sociale; le persone vivono in una dimensione omologante. In Polyphōnia c’è, quindi, questa riflessione sull’espansione della città, ma quello su cui principalmente volevo riflettere e lavorare era il modo in cui la struttura seriale dei corpi architettonici delle aree indagate potesse entrare in simbiosi con le sonorità di String quartet no. 2. È questo confronto che ho voluto rendere, recandomi nelle nuove periferie per un periodo di circa cinque anni, ascoltando ripetutamente, con le cuffie alle orecchie, la composizione di Feldman nella speranza che l’impianto sonoro e visivo collimasse.
Come si muoveva tra gli edifici per cogliere questo senso di trasposizione?
Ho trattato le cellule abitative di queste zone come quinte teatrali, fotografandole senza avere come punto di riferimento l’orizzonte, per evitare che si aprisse uno skyline che avrebbe fuorviato il concetto di fondo del lavoro riportandolo in una dimensione descrittiva in cui il referente fosse troppo riconoscibile. Ho fotografato entrando e uscendo da quegli spazi, concentrandomi su relazioni che manifestassero una possibilità di dialogo con la serialità della musica di Feldman, senza rivelare elementi che connotassero geograficamente i luoghi della città. Consapevolmente le immagini di Polyphōnia non hanno didascalie dove siano ricollegabili i siti urbani, perché l’intento del progetto non è “narrativo”, non mi interessa che il referente sia riconoscibile. Sono partito con l’idea di una griglia mobile, in cui le inquadrature fossero in costante rinnovo, per contrastare una certa attitudine della fotografia di genere (l’architettura) a riproporre schemi fissi e “gabbie” prevedibili.
Come avete realizzato il progetto allestitivo generale della mostra?
Alla Fondazione Biscozzi | Rimbaud, le opere esposte sono di formato all’incirca 42x53 cm, e allestite con l’intento di trasmettere l’idea del “blocco” della cellula abitativa ed anche di trasmettere una forma di “notazione” musicale. Le immagini sono adesivizzate su lastrine di alluminio a loro volta montate a squadro preciso su telai neri profondi 7 cm. Con questa struttura visiva diamo allo spettatore la sensazione che, guardando le opere frontalmente, le immagini smarginate galleggino nel vuoto, senza alcuna cornice; guardandole, invece, di taglio, la profondità dei blocchi neri riporta alla mente un’idea di partitura e di notazione musicale o, ancora, di una scrittura elettronica che si articola sulle pareti.
Anche il libro riferito al progetto, pubblicato da Dario Cimorelli Editore, rende lo stesso effetto visivo, attraverso una labbratura nera delle pagine interne.
Nell’allestimento è esposto anche un film di 25 minuti. Di cosa si tratta?
Tutte le immagini del progetto, che sono più di cento, nel film sono montate attraverso lente dissolvenze che sfaldano e ricompongono quella struttura a griglia di cui parlavo prima. L’elemento importante del film è la presenza diretta delle sonorità di Morton Feldman, che con le immagini creano un unicum.
La diversa modalità espositiva e di linguaggio (film, mostra e libro) che apporto dà al progetto?
Le diverse modalità sono riconducibili allo stesso contenuto, ma hanno una loro specificità, nel senso che possono essere messe in relazione fra di loro o restare in una espressione autonoma.
Il film ha una dimensione cinetica, gioca con un complesso sistema di dissolvenze, ma soprattutto è l’unico in cui è rilevabile anche l’apparato musicale da cui il progetto trae ispirazione, dando al fruitore una sensazione di completezza, attraverso cui gli elementi, visivi e uditivi, sono resi evidenti.
La veste “mostra” è, invece, più aperta e interpretabile. È possibile leggere il progetto come critica all’espansione delle nuove periferie, ma anche come altro, in base alla sensibilità dello spettatore.
Nel libro il fruitore è chiamato a “raccogliersi” nello spazio intimo delle pagine, ribaltando il rapporto fisico che persiste nello spazio del film e nella mostra. Per la realizzazione del volume ho usato un tipo di carta opaca, neutra e liscia, che crea nuovi registri alle immagini, sfruttando la trasparenza che si crea girando le pagine. Ciò potrebbe ricollegarsi, in un certo senso, all’azione delle dissolvenze nel film. Inoltre, nel libro, è maggiormente esplicitata la sensazione di ambiguità fra fotografia e disegno, dove il sottile confine tra reale e fiction è espresso da un delicato intervento digitale.
Visto che nel suo lavoro rifugge il referente e la sua rappresentazione documentativa, definirebbe la sua visione “astratta”?
Stefania Zuliani, curatrice della mostra, definisce, giustamente, il mio lavoro di “astrazione analitica”. Sottotraccia, persiste un tentativo di ancoraggio alla rappresentazione, ma contemporaneamente, attraverso l’articolazione della mia cifra espressiva, lo allontano abbracciando l’astrazione. Come dicevo prima, il mio lavoro non vuole essere dichiaratamente di taglio documentario, anche se, di fondo, è comunque percepibile in esso, un’analisi critica di alcuni temi che riguardano la vita e la nostra società. Il cortocircuito che si avverte dalle mie opere dipende proprio dalla persistenza di queste due valenze che si incrociano e si alimentano tra di loro.
Francesca Orsi