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Lucio Pozzi
Leggi i suoi articoliAdesso Manhattan è la città delle sirene, non di quelle che seducono ma di quelle della polizia, delle ambulanze e dei pompieri. L'undici settembre io ho dipinto con amore ed estrema attenzione un paesaggino, copiandolo da una foto di un mio lavoro, che poi, strano il destino, ho scoperto più tardi, credo sia stato fra una mezza dozzina di acquerelli miei che erano appesi in una collezione nel World Trade Center.
Mi sono chiesto perché l'ho dipinto quel giorno. Penso che la delicata vulnerabilità e inutilità di un quadretto come quello sia una risposta all'orrore. Non era un gesto di evasione. Non era neanche un gesto di speranza e nemmeno di sfida. L'arte non cambia la politica del mondo. L'arte non convincerà mai i nostri governanti che agire per i milioni di poveri, malati e morenti e affamati nel mondo fuori dalle nostre mura dorate non è soltanto caritatevole ma è la miglior autodifesa.
Un amico italiano mi ha detto: «Ormai non si può più continuare a fare arte». Gli ho risposto: «Oggi ho dipinto un acquarellino e ne farò un altro domani». Non illudiamoci: quella che chiamiamo arte non sostiene più i compiti affidatile nel passato, ma le modeste pitturicchie anche del pittore di cortile, le forze del male non potranno mai possederle, proprio perché queste fragili superfici dipinte non servono a niente.
Anche se vengono distrutte fisicamente, quello che rappresentano, la testimonianza che la nostra mente e la nostra mano sanno dipingerle, non viene scalfito. Sono come il muto grido di libertà che il prigioniero nella cella produce quando gli hanno tolto carta, matita e qualsiasi mezzo per fare arte e malgrado ciò egli sputa per terra e col dito disegna nella polvere regalandosi un 'altra giornata di pensiero che le guardie non possono rubare.
L'articolo è stato pubblicato originariamente su Il Giornale dell'Arte n. 203, settembre 2001

Una veduta aerea al momento dell'attentato dell'11 settembre
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